Trovo interessante e fruttuoso pensare che la radice del meglio del nostro essere umani sia quando uno/a percepisce di essere quel sé stesso/a che è unico al mondo e nessun altro ha, il sentirsi io, che, se coltivato in maniera appropriata, dovrebbe condurre anche a tener sempre presente che anche l’altro, come me, sente un suo essere io che, essendo esclusivo, è ultimamente impossibile da esprimere. Proprio perché è impossibile da esprimere, è impossibile da trattare come un oggetto, quindi è in sé stesso protetto, immune da questo pericolo. Sarebbe quindi la radice, il punto di partenza, per trattare le persone non come oggetti, ma come soggetti, che hanno ciascuna una loro dignità, libertà, creatività.

Naturalmente ciò non può significare che, se uno non mostra questo filosofico sentirsi io, allora non è una persona. Il concetto filosofico dovrebbe servire a rendermi conto di ciò che già è nelle persone, indipendentemente da quanto ne siano consapevoli. Un bambino, per esempio, può non essere in grado di dimostrare una consapevolezza di essere un io, ma io posso riconoscere in lui che questa capacità è già presente. La si potrebbe riconoscere anche negli animali, con le loro diverse modalità. Questo potrebbe aiutare a trovare un motivo perché avere rispetto per gli animali, le persone, le piante, mentre non c’è bisogno di avere alcun rispetto per gli oggetti, se non per le conseguenze che ci possono essere sugli esseri viventi. Questo significa che la migliore motivazione per non usare violenza, per avere rispetto, non è quella di non far soffrire. Infatti anche la sofferenza può essere oggettivata, cioè concepita come nient’altro che un insieme di meccanismi e impulsi con cui la natura ci ha equipaggiato per reagire e sopravvivere. Anche un computer può essere fabbricato in maniera tale da reagire come se soffrisse. La differenza è che, se faccio violenza a un computer, dentro quel computer non c’è un “qualcuno” che sta soffrendo, mentre, se faccio violenza a una pianta, ho l’impressione che lì non ci siano soltanto dei meccanismi che reagiscono, ma come un principio, sia pure molto elementare, dell’essere “qualcuno”. Il punto è stabilire cosa significa questo essere “qualcuno”, o essere “persona”. Ora, mi sembra che il miglior punto di riferimento per questa questione sia la nostra capacità, che tutti, in maniere diverse, possono riscontrare in sé stessi, di sentirsi io, quell’io unico ed esclusivo che tu solo/a hai in questo mondo e nessun altro ha, né potrà mai capire, perché è tuo e solo tuo.
Questa cosa può diventare anche una pratica spirituale, un esercizio, un argomento di meditazione prolungata in silenzio, perché non basta averla capita. C’è bisogno poi di imprimerla in continuazione nel nostro animo, il nostro comportamento, esercitandoci anche a vedere se e come riesca a modificare i nostri comportamenti, la nostra vita, altrimenti rischia di essere solo teoria, un pensiero astratto che possiamo tradire in tutti i momenti, allo stesso modo in cui nella Bibbia ci sono continui rimproveri contro l’ipocrisia, cioè il tradimento della propria stessa fede, la propria religione, i propri stessi princìpi. L’io infatti, proprio perché lo scopriamo profondamente nella meditazione, si rivela chiaramente anche egoista. Io scopro diverse volte che anche i miei sogni sono piuttosto egoisti. D’altra parte, è impossibile vivere in questo mondo senza almeno un minimo di affermazione di sé. In mezzo a tutto ciò possiamo rendere la nostra meditazione sull’io completa quando diventa strumento per dare importanza anche agli altri io, altrimenti rimane un esercizio chiuso nella contemplazione di sé, uno stare a guardarsi l’ombelico.

A questo punto sarà utile una considerazione sul linguaggio. Il nostro linguaggio, mi riferisco al linguaggio in generale, che include tutte le lingue del mondo, ci forza a farci un’idea sbagliata dell’io e c’impedisce di avere consapevolezza del suo aspetto più importante. Pensiamo a un oggetto qualsiasi, per esempio un’arancia. Come faccio a descriverla in modo tale da riferirmi specificamente a quell’arancia e non ad altre che ne esistono nel mondo? Normalmente noi risolviamo questo problema dicendo “Quella, quella lì”. Dire “Quella lì”, però, non è scientifico. Per esempio, se vuoi pubblicare una ricerca scientifica su quella specifica arancia, non puoi scrivere che la tua ricerca riguarda “quell’arancia, proprio quella lì”. Come fare allora ad essere precisi scientificamente, per indicare un’oggetto specifico senza rischio di confonderlo con gli altri? A questo punto è chiaro che i riferimenti che ci servono sono quelli di spazio e tempo. Per esempio si potrebbe dire: la mia ricerca scientifica riguarda l’arancia che era sul pianeta terra, alle coordinate satellitari 123445677 897765445, alle ore 13:37, 3 secondi e 4 millesimi di secondo, ora solare in Italia. In fondo, ciò che è sottinteso quando diciamo “Quella lì” è proprio questo: l’arancia che si trova lì (= spazio) in questo momento (= tempo). Il solo spazio o il solo tempo non bastano, perché domani ci può essere un’altra arancia nello stesso punto, oppure nello stesso momento ci può essere un’altra arancia 10 centimetri più a destra. Invece, combinando entrambi insieme, possiamo ottenere una precisione che non lascia margine di errori. In fondo è quello che facciamo anche quando facciamo cronaca o libri di storia: ciò che diciamo per identificare con precisione di chi o di che cosa stiamo parlando si può sempre ricondurre alla combinazione di spazio e tempo. Per esempio, se diciamo che Garibaldi fu quello che fece la spedizione dei Mille, il riferimento funziona perché sappiamo dove (= spazio) e quando (= tempo) la spedizione dei Mille avvenne, o almeno ne abbiamo qualche idea pur sempre riconducibile a uno spazio e a un tempo. Anche quando ci può essere molta incertezza su entrambi, in ogni caso ciò a cui la nostra mente pensa è sempre qualche riferimento spaziale e temporale.

La scienza si occupa di ciò che è oggettivo, cioè i dati di fatto misurabili, sperimentabili, indipendenti dal soggetto, cioè dall’osservatore. Ciò che è soggettivo è invece un’opinione. Per poter studiare qualcosa, la scienza ha bisogno di oggettivarlo, cioè ridurlo a un oggetto, a qualcosa di misurabile. Anche per poter studiare le persone, la scienza ha bisogno di ridurle a oggetti, altrimenti non ha un materiale su cui studiare. Per poter studiare l’io, la scienza ha bisogno di ridurlo a meccanismi quantificabili, misurabili, lo deve oggettivare, cioè trattare come un oggetto esterno all’osservatore, un oggetto quanto più possibile non condizionato dall’osservatore, dallo studioso, dallo scienziato, altrimenti non lo può studiare scientificamente.

Tutte le volte che parliamo di oggetti, c’è sempre un soggetto che ne sta parlando. Questo significa che l’oggettività assoluta, pura, non può esistere. Anche nella scienza lo sforzo di essere oggettivi è limitato, perché dove c’è scienza c’è sempre anche uno scienziato, cioè un osservatore, un soggetto, che ne condiziona l’oggettività. È il classico problema del relativismo: non possiamo essere sicuri di niente, perché qualunque cosa diciamo c’è sempre qualcuno che la sta dicendo. A questo punto potremmo chiederci: allora i dinosauri erano un’oggettività perfetta, visto che non c’era nessuno ad osservarli? Non si può rispondere di sì, perché sia il concetto dei dinosauri, sia quello di oggettività perfetta vengono pensati ora da un soggetto. Quindi anche in questo caso non si sfugge alla presenza di un soggetto il quale rende limitata l’oggettività. Ci si può chiedere se un fiore non guardato da nessuno esista. Il problema è che il concetto stesso di fiore non guardato da nessuno è già condizionato adesso da chi ci sta pensando, quindi non è possibile sapere con oggettività perfetta se esiste o no e che senso abbia esistere.

Ciò che succede con la scienza succede in realtà tutte le volte che parliamo: appena diamo un nome a un oggetto, o anche a una persona, li abbiamo automaticamente oggettivati, ridotti a oggetti pensabili. Istintivamente cerchiamo di risolvere questo problema introducendo nel linguaggio le nostre emozioni, espressività, arte, stati d’animo: sono modi di forzare il linguaggio a dire cose che di per sé non può dire. Il filosofo Wittgenstein disse che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Io non sono d’accordo: di fronte a cose di cui non si riesce a parlare si può tentare di forzare il linguaggio a dirlo lo stesso, anche se in questo modo il linguaggio perde la sua oggettività. È quello che facciamo quando parliamo in poesia, esprimiamo emozioni, esclamazioni, arte, sorriso, paradossi, contraddizioni: sono tutti modi di forzare il linguaggio ad esprimere ciò che di per sé non può dire, che poi non è altro che esprimere la soggettività.

Un altro problema che si trova sia nella scienza che nel linguaggio in generale, oltre alla necesità di oggettivare, è la mancanza di riferimenti a ciò che è unico. Per esempio, quando diciamo “questa è un’arancia”, stiamo riferendo a quella specifica arancia un termine che in realtà si riferisce a tutte le arance del mondo e quindi ignora completamente l’unicità esclusiva di quella specifica arancia. Noi istintivamente tentiamo di risolvere questa difficoltà quando diamo dei nomi propri. Per esempio, se vedo Enzo, altro è dire “Questo è uomo”, ignorando la sua unicità, altro è dire “Questo è Enzo”. Sia i filosofi che gli scienziati si sono normalmente disinteressati altamente dell’unicità dei singoli oggetti o delle singole persone. Questo ha portato a enormi confusioni, ambiguità, pretese, illusioni, ma io direi francamente stupidità.

Da quanto detto, possiamo renderci conto che è possibile distinguere due tipi di elementi costitutivi dell’io. Un primo tipo sono tutti quegli elementi che è possibile oggettivare. Per esempio il carattere, la personalità, tutti gli aspetti psicologici. L’altro tipo è la mia sensazione unica di sentirmi io, l’impressione di essere dentro questo corpo, che mi porta a chiedermi come mai questo mio io sia il risultato di questo corpo invece di un altro corpo, come mai io sia andato/a a finire qui, come mai sia nato/a in questo periodo della storia mondiale invece che in un altro.
Il primo tipo è facile da descrivere, denominare, oggettivare. Il secondo tipo è interamente soggettivo, impossibile da descrivere e oggettivare, non ha e non può avere un nome, è interamente sottoposto al dubbio se esista davvero. In pratica corrisponde al “problema difficile della coscienza” descritto da David Chalmers, mentre il primo tipo è il “problema facile della coscienza”.

Qualcuno mi potrebbe chiedere: se il secondo tipo è impossibile da descrivere, non è una contraddizione il fatto stesso che tu ne stia parlando, lo stia descrivendo?

Si possono dare due risposte.

Una è che il mio tentativo di parlarne sfrutta qualche forzatura del linguaggio, le forzature di cui dicevo prima, che permettono di produrre arte, ma perdono la consistenza e la forza dell’oggettività.

Un’altra risposta è che, in qualsiasi modo io lo descriva, mi baso sulla speranza che chi mi ascolta rintracci nella propria esperienza intima personale questa sensazione di sentirsi io. Se chi mi ascolta mi dice che non ci riesce, che ha l’impressione che questo secondo io artistico sia soltanto aria fritta, parole campate in aria, non ho niente da controbattere, appunto perché si tratta dell’aspetto dell’io che è interamente soggettivo. Posso solo trovare sostegno nel fatto che molti autori, sia di filosofia, sia di letteratura o arte, hanno parlato in questi termini, facendo pensare che questo fenomeno di sentirsi io non sia una cosa solo mia; al contrario, molti vi hanno già dedicato e vi dedicano tempo e studio, nello sforzo di parlarne, così come ci sono filosofi e studiosi che dicono che invece si tratta solo di concetti illusori, privi di alcun significato.

Secondo me, quindi, l’io indescrivibile è la base del senso della vita, della possibilità di percepire in sé una libertà, la base di ciò che ci rende davvero umani, capaci di empatia, la sensibilità più profonda da cercare di suscitare nei figli, il contenuto primario di qualsiasi meditazione.

Le grandi stupidità di scienziati e filosofi a cui ho fatto riferimento sono gli enormi sforzi, studi, libri e dibattiti, che hanno fatto e ancora fanno, per analizzare l’io indescrivibile, che può anche essere chiamato “soggettività”, “coscienza”, “autocoscienza”, cercando di capire in che modo questa sensazione venga prodotta nel nostro cervello, dai nostri neuroni – alcuni cercano di riferirsi perfino alla fisica quantistica – senza accorgersi che, procedendo in questo modo, ciò di cui parlano non è più l’io indescrivibile, ma diventa automaticamente quello descrivibile e misurabile. L’unico modo per mantenersi nell’ambito dell’io indescrivibile, che io chiamo la vera soggettività, è di mantenersi su un linguaggio fatto di forzature, arte, emozioni, impressioni, percezioni.

I due aspetti dell’io, descrivibile e indescrivibile, sono ovviamente collegati, in continuo dialogo tra di loro.