La parola non è semplicemente uno strumento per comunicare, ma anche un formidabile veicolo di vita interiore, umanità, arte, storia, emozioni. Possiamo riscontrare questo non solo in tre grandi religioni che, tra l’altro, sono religioni della Parola, mi riferisco all’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, ma anche in tutta la storia della cultura umana; basti pensare che distinguiamo tra storia e preistoria proprio in riferimento alla possibilità archeologica di rintracciare parole, testi scritti.
La parola viene ad essere come un contenitore vivo, in grado di ri-suscitare dei modi di presenza: quando leggo una lettera, è come se l’autore venisse magicamente evocato accanto a me a parlarmi; in questo senso è possibile avere un contatto emozionale anche con persone che non ci sono più da secoli o millenni. La questione diventa particolarmente intrigante se cominciamo a pensare che quella persona, lontana nei secoli e nei chilometri, che ci fa entrare nel cuore le sue emozioni più intime attraverso la sua lettera che ci è pervenuta, possiamo essere noi stessi. In altri termini, la parola non solo ha il potere di mettere in comunicazione due persone anche lontanissime tra loro nel tempo e nello spazio, ma si dimostra anche rivelatrice, è uno scrigno che può far scoprire esperienze inaspettate: attraverso una mia stessa parola, scritta nel mio diario, una volta che io sia tornato a rifletterci, può anche accadere che mi accorga di quanto lontano sono da me stesso, quante emozioni ci sono in me di cui io stesso non mi accorgo, ma che una lettura attenta delle mie stesse parole è in grado di rivelarmi.
Ora, non tutti abbiamo le stesse capacità di tirar fuori da una parola l’universo che essa contiene, anzi, proprio nessuno ha queste capacità in maniera adeguata: ogni specialista è in grado di evidenziare in una parola aspetti che completano e arricchiscono ciò che altri specialisti sono riusciti a scoprire. In questo post, da un punto di vista di attenzione al pratico, cercheremo di osservare soltanto uno specifico aspetto. Si tratta del fatto che la parola è in grado di portare con sé anche il suo opposto, cioè silenzio. Affinché però questo riesca ad emergere, sarà necessaria un’operazione: affinché da una parola sia possibile trarre non solo i contenuti espliciti, ma anche il silenzio che essa veicola e può farci sperimentare, sarà necessario appartarsi ed ascoltare quella parola durante un momento che sia di silenzio. Si capisce che in questo modo ho lasciato intendere un altro esercizio pratico che chiunque può provare a sperimentare da sé: scegliere un qualsiasi testo breve, adatto, e provare a meditarlo con queste consapevolezze.
In conclusione faccio notare che la nostra epoca si dimostra alquanto nemica di questo tipo di attenzione alla parola, specialmente come portatrice di silenzio: se pensiamo ai social network, gli smartphone che ormai vedo usare anche mentre si va in bicicletta, le mode che cercano di far apparire figo chi parla con ritmo veloce, incalzante, e quindi senza aver concesso tempi di riflessione né a sé stesso, né a chi ascolta, la caduta delle ideologie che è stata sfruttata per propagandare modi di comunicare impoveriti e a singhiozzo, fatti di tweet ed sms, quindi senza il filo di un discorso prolungato, armonico e calmo, in grado di far gustare delle profondità, bisogna proprio prendere atto che oggi un complotto contro la profondità, la grandezza e la silenziosità della parola, se anche non è consapevolmente voluto, è comunque posto in essere. La conseguenza è che oggi chi intenda intraprendere un cammino serio di spiritualità dovrà farlo sapendo di percorrere una strada che, almeno in partenza, gli potrà risultare in salita, arida, perfino irta di spine. Non bisogna però scoraggiarsi: nella storia dell’umanità tante sensibilità hanno dimostrato di riuscire a farsi strada nelle condizioni più avverse ed è possibile assaporare l’orgoglio di aver portato avanti cammini che aiutano alla crescita di tutti.
Salve a tutti. Siamo arrivati all’articolo che ha come titolo “La spiritualità della parola”. Ho evidenziato che la parola ha una capacità grandissima di profondità, di rivelazione del nostro essere, di ciò che siamo in grado di comunicare, o a volte proprio come rinvio a ciò che non può essere detto a parole. Qui adesso voglio far notare che la parola può anche essere l’opposto, cioè dire, a volte piuttosto che rivelare, mostrare, la parola diventa nascondimento, velamento, o addirittura inganno, tradimento, anche senza volerlo e anche con sé stessi. Da questo punto di vista, oltre a questo, la parola può risultare quindi come qualcosa che uccide la spiritualità, qualcosa che agisce con disonestà e quindi mi allontana dall’autenticità. Come reagire di fronte a questo problema? Credo che una via a cui tentare di attenersi sia quella di considerare la parola, trattare la parola, in un contesto di debolezza, cioè dire, la parola non può essere messa sul piedistallo, perché la parola è in grado anche di tradire, nonostante le sue enormi, bellissime, grandissime potenzialità e capacità. Allora la parola va considerata come qualcosa che va messa in discussione, va messa in dubbio e quindi non è qualcosa di forte, qualcosa di capace di imporsi, di portare a certezze, a forze, in maniera garantita, ma piuttosto come una continua ricerca, la parola come una strada, uno strumento per camminare, su cui lavorare in continuazione. Ora, siccome questo avviene nella nostra vita in maniere a volte estreme, cioè la parola a volte sembra meritare di essere proprio santificata per le sue norme capacità e poi, all’opposto, può invece meritare di essere uccisa, attraverso il silenzio, oppure attraverso il dubbio, perché si è dimostrata traditrice. In questo senso il ricorso alla debolezza, a lasciarsi sconfiggere dal nemico che voglia imporsi con la forza della sua parola, ben piantata, ben sicura, questo ricorso alla debolezza può significare un lasciarsi uccidere, quindi uccidere la parola e con essa morire io stesso, perché uccidendo la parola mi viene a mancare uno strumento essenziale, che però dovrò continuare ad usare lo stesso, perché mi serve, perché non posso fare a meno di sfruttare la parola. Da questo punto di vista può essere sufficiente tener presente che nulla va idolatrato, nulla va divinizzato. Potremmo anche dire, in maniera estrema, neanche Dio andrebbe idolatrato, ma con questo non vorrei negare la possibilità delle religioni, ma piuttosto far riferimento al fatto che nelle religioni, quando si parla del trascendente, o di Dio, in realtà se ne parla sempre con un richiamo a non ingabbiarlo, a non considerarlo troppo conosciuto, altrimenti non è più Dio, altrimenti non è più trascendente. Da questo punto di vista direi che bisognerebbe fare attenzione anche a non idolatrare Dio, cioè non farlo diventare un idolo, che in realtà poi non è altro che una proiezione soltanto di noi stessi o della nostra mentalità. Da questo punto di vista non va idolatrato niente, neanche la debolezza e neanche il camminare. La debolezza no perché va riconosciuta anche la forza della parola, la forza positiva trascinatrice, e non va idolatrato il camminare perché nel camminare c’è anche la sosta, il fermarsi, il godersi il paesaggio senza necessariamente vedere dove dobbiamo andare successivamente. Anche questo credo che riesca ad essere però inglobato nel camminare, cioè il camminare viene ad avere nella mia visione questa particolarità, cioè riesce a comprendere anche l’opposto di sé, cioè il non camminare, il fare attenzione anche all’essere fermi. Con questi spunti di riflessione, di attenzione verso la parola come tesoro e però che è capace anche di tradirci, come potenza che però non va idolatrata, auguro a tutti di crescere sempre nella spiritualità e vi rinvio alla prossima riflessione. Arrivederci a tutti.
Leave A Comment