Il modello del crucipuzzle
Come facciamo a ritenere che nel nostro cervello si verifichi un’esperienza spirituale? A questo scopo trovo molto utile prendere come riferimento il gioco del “crucipuzzle” che è possibile trovare in diversi giornali, specialmente di enigmistica. Si tratta di un quadrato, interamente riempito di lettere dell’alfabeto, in cui bisogna individuare delle parole, che possono trovarsi in orizzontale, in verticale, in diagonale o anche all’indietro, insomma, in tutte le direzioni.
Ecco un esempio di crucipuzzle:
Quando si riesce ad individuare nel riquadro una delle parole elencate a destra, la si segna con una matita, sia nel riquadro che nell’elenco. Il gioco consiste nell’individuare tutte le parole e poi leggere le lettere rimaste, che vengono a formare una nuova parola o una frase, per esempio un proverbio. Per esempio, si può notare che nella terzultima riga, leggendo all’indietro, c’è la parola “Misti”.
A questo punto possiamo immaginare di creare un crucipuzzle senza aver scelto le parole, cioè semplicemente riempiendo il quadrato di lettere a caso. Poi, guardando il quadro, potrebbe accadere di individuare delle parole che si sono venute a formare involontariamente. A quel punto ci si può chiedere: quelle parole sono davvero nel crucipuzzle, oppure è solo perché la nostra mente decide di vederle lì? È ovvio che come combinazione di lettere sono materialmente lì, ma è sempre la nostra mente che decide se vederci parole o no. Per esempio, potrebbe formarsi casualmente la parola ACIDOM, che letta al contrario è Modica; uno potrebbe dire: “C’è la parola Modica”; un altro potrebbe rispondere: “No, c’è solo quella sequenza di lettere, ma non è esatto dire che c’è la parola Modica; sei tu che in quella sequenza decidi di vedere la parola Modica”. Insomma, si crea una situazione con un misto tra fatto oggettivo (cioè quelle lettere formano effettivamente la parola “Modica” se lette al contrario) e fatto soggettivo (quelle lettere formano la parola Modica solo perché il lettore conosce quella parola e quindi gli viene spontaneo vedercela; a un’altra persona quelle lettere potrebbero non suggerire proprio nulla). Questo si potrebbe anche considerare un misto tra fatto materiale e fatto spirituale: quelle lettere in quella direzione sono un fatto materiale; ma la parola “Modica” lì presente è un fatto materiale oppure spirituale, visto che solo alcuni riescono a vederla? Qui può essere giusta qualsiasi risposta, sia una risposta da atei che una risposta da credenti, i quali decidono di pensare che lì, spiritualmente, per chi accetti di vedercela, c’è la parola “Modica”. Un altro potrebbe sostenere che non è un fenomeno soggettivo, perché la parola “Modica” è materialmente lì; se non ci fosse materialmente non saremmo in grado di vedercela. Un altro potrebbe sostenere che invece è soggettivo, la parola non è materialmente lì, ma se la inventa il lettore, tant’è vero che per poterla leggere è necessario seguire le lettere al contrario. Questa è la polemica infinita tra metafisici e antimetafisici, la si può prolungare quanto si vuole, e di fatto così oggi avviene tra filosofi e non, perché non è difficile rispondere a qualsiasi affermazione con un’obiezione opposta, senza che si possa mai arrivare a stabilire chi ha ragione. Le strutture della spiritualità che tentiamo di comprendere risentono di queste problematiche.
Salve a tutti. Questo video integra il post intitolato “Strutture della spiritualità – prima parte”. In questo post alla fine viene detto che c’è un problema per quanto riguarda il rapporto con la verità. Cioè, nell’interpretare la realtà, possono darsi dei disaccordi: c’è chi dice “È così”, un altro invece può dire “No, tu la vedi, così ma è diversamente” e così nasce una discussione, una polemica infinita, detta in termini tecnici, filosofici, tra i metafisici, che ritengono che ci sia una realtà, una verità raggiungibile, definibile, fuori dal nostro cervello, e invece, altri, che possiamo chiamare soggettivisti, relativisti, post-moderni, quelli del pensiero debole, eccetera, che preferiscono rimarcare il fatto che, quando percepiamo la realtà, in realtà interviene in maniera ineludibile, in una maniera che non si può eliminare, la nostra mente, il soggetto, interveniamo noi e quindi, quando parliamo di realtà, come si fa a dire “Quella cosa è così”? Io la vedo così, eccetera. Questa è una discussione che tutt’oggi risulta insormontabile, indefinibile e a questo punto, visto che ci troviamo in un contesto di spiritualità, ci interroghiamo se sia possibile un diverso modo di accostarsi a questa problematica, magari più fruttuoso, che non si impantani nella polemica “No sei tu che vedi così”, “No, è così davvero” “La realtà c’è”, “Non c’è”, “È un sogno”, eccetera. Ora, una via diversa può essere praticata, proprio tenendo presente l’intervento della nostra soggettività, della nostra mente, nell’evento della conoscenza. Dicevamo “È un rapporto, una questione di rapporto con la verità”. Come intendere la verità, che cos’è la verità? Una domanda famosa che Pilato fece a Gesù al momento in cui lo processava: “Che cos’è la verità?”. Una definizione tradizionale di verità è quella di “adeguamento”: verità è quando la mia mente si adegua alla realtà. Per esempio, vedo un oggetto rosso e allora, se la mia mente dice, pensa “Quell’oggetto è rosso”, la mia mente si sta adeguando alla verità e, dunque, sto seguendo la verità. Al contrario, se vedo un oggetto rosso, la mia mente comincia a pensare “È verde”, allora quello sarebbe un non seguire la verità, la mente non si sta adeguando alla realtà. Riallacciandoci a ciò che ho detto poco fa, può sempre sollevarsi l’obiezione “Sì, tu lo vedi rosso, ma può essere anche per un problema dei tuoi occhi, per un’illusione ottica, una luce colorata che ti fa apparire quell’oggetto diversamente”. Dunque potremmo tener presente che questa questione di adeguamento non è tanto tra ciò che penso e la realtà, pensare che l’oggetto è rosso e la realtà che quell’oggetto è rosso davvero, ma adeguamento tra ciò che i miei sensi danno al mio cervello, cioè la percezione che mi sto creando di quell’oggetto e l’idea che ci costruisco sopra. È leggermente diverso, ma è quasi uguale. Allora, dove sta la differenza? Piuttosto che dire “Quell’oggetto è rosso” e io penso che è rosso, quindi il mio pensiero si adegua all’oggetto, diciamo che le informazioni che mi arrivano dagli occhi, le informazioni che mi dà il cervello su quell’oggetto mi dicono che si comporta come oggetto rosso e allora io ci fabbrico sopra un pensiero che pensa “Sì, quell’oggetto...”, ci relazioniamo come con un oggetto rosso. La differenza consiste sul fatto che non è più un rapporto di me con la realtà, cioè del mio cervello con l’esterno, ma un rapporto all’interno stesso di me, un rapporto tra cervello e cervello, tra ciò che il cervello sente di recepire e ciò che il cervello fabbrica come pensiero, sistema di pensiero, sulla percezione, sulla ricezione che si è venuta a creare nel cervello. Questo può avere delle conseguenze, dei cambiamenti, credo anche positivi, per quanto riguarda la questione della verità. In che senso? Significa che la prima armonia (avevamo parlato di adeguamento, adesso uso il termine “armonia”), la prima armonia che devo costruire, se voglio seguire la verità, non è armonia con la realtà, ma è armonia interiore, armonia tra ciò che ho recepito e i pensieri che man mano fabbrico sopra ciò che ho recepito. Cioè, prima di adeguarmi alla realtà devo adeguarmi a me stesso e qui nasce tutto un lavoro, cioè, piuttosto che dire “Quell’oggetto è rosso, ho pensato che è rosso e quindi ok, tutto risolto, ho pensato che è rosso, sono nella verità, ho finito il lavoro”; ma invece, se è una questione di armonia interiore è un lavoro che non finisce mai, già con la realtà stessa, perché la realtà è in divenire, ma ancora di più se, piuttosto che pensare di relazionarmi con la realtà mi relaziono con le mie percezioni, perché ancora di più le mie percezioni sono soggette a cambiamento, a reinterpretazioni, interrogativi, dubbi, critica. Quindi che cosa succede? Che la verità, piuttosto che essere un punto di arrivo, cioè vedo l’oggetto che è rosso, penso che è rosso, “Ok, sono nella verità, sono arrivato”, diventa piuttosto un lavoro infinito, un lavoro continuativo di un creare armonie, buone relazioni all’interno di me stesso. È un lavoro interiore. Questo viene ad essere un contributo che la spiritualità dà alla questione di “che cos’è la verità, come trattarla, come rapportarsi con essa”; un lavoro continuo sulle relazioni interiori tra ciò che penso e ciò che percepisco.
In questo senso possiamo anche osservare che questo modo di considerare la verità viene ad essere alternativo alla mentalità del capire, “Voglio capire la verità, la voglio possedere, ci voglio mettere le mani sopra, in maniera da esercitare un potere”. Difatti la posizione debole sulla verità insiste su un problema di violenza: io voglio farmi costringere dall’oggetto, l’oggetto mi forza, mi dice “È rosso” e quindi devo pensare che è rosso e poi comincerò a esercitare violenza sugli altri: “Tu devi pensare che è rosso, perché quell’oggetto è rosso e se non pensi che è rosso allora sei un pazzo, sei un folle, magari ti dobbiamo mettere al manicomio”: problemi della violenza. Nel caso della spiritualità, invece, la questione della verità è un problema mio interiore su cui lavorare in continuazione e quindi non è più un problema di potere, perché mi accorgo che su di me non potrò mai esercitare un potere definitivo, ma devo lavorare all’infinito. Questo potrebbe dare l’impressione di mettere sulle nostre spalle un peso, un lavoro, il peso del dubbio, della critica, della ricerca, ma in realtà questo ha anche dei risultati che ritengo rasserenanti per quanto riguarda il rapporto con la verità. Perché? Perché, per esempio, richiamiamoci a un ipotetico problema con la verità: penso che la verità dovrebbe essere in un certo modo, mi accorgo che le idee mi tradiscono, sono complesse, anche la realtà mi tradisce, pensavo che fosse in un modo, poi in realtà è in un altro. Allora che cosa si viene a creare? Si viene a creare un problema; tanti problemi, ma quello su cui voglio concentrarmi è il disagio dell’ipocrisia. Di solito, quando pensiamo a ipocrisia, pensiamo alla persona in malafede, la persona che pensa una cosa e ne dice un’altra. Ma questo che abbiamo visto finora ci porta a un approccio diverso all’ipocrisia. Cioè, chi sarebbe in questo caso l’ipocrita? L’ipocrita verrebbe ad essere non il cattivo, il malvagio in malafede, ma piuttosto una persona che pensava di arrivare alla verità, non ci arriva perché la verità gli crea problemi, i suoi pensieri gli creano problemi perché tutto non è padroneggiabile e allora la persona ipocrita comincia ad avere comportamenti ambigui. Dice una cosa, ma ne dice anche un’altra, sorride, ma in realtà sorride perché vorrebbe tradire. Insomma, l’ipocrisia, più che malizia, viene ad essere un disagio del comportamento interiore e del comportamento con gli altri. Un disagio dovuto all’idea che la verità doveva essere un punto di arrivo, un punto in cui finalmente mi fermo. Poi vedo che non mi posso fermare, non c’è quest’arrivo e allora vivo questo disagio, non so come comportarmi, devo difendermi con gli altri, comincio a dire bugie, sia agli altri, ma anche a me stesso. Ed ecco la persona disarmonizzata, ipocrita non tanto con gli altri, ma anzitutto con sé stessa. In quest’altra prospettiva, invece, spirituale, in cui non si finisce mai con un lavoro di armonizzazione interiore, l’ipocrisia viene ospitata come dato di fatto di partenza, nel senso che, non essendoci mai una fine di questo lavoro, posso rappacificarmi e dire “Sì, lo so, siamo tutti ipocriti perché non si può uscire dall’ipocrisia”, ma non nel senso che siamo tutti condannati ad essere cattivi, ma nel senso che non si finisce mai di lavorare sulla verità, su questo adeguamento, su questa costruzione di armonia interiore. E quindi, in questo senso, più che la persona che si fissa, “Quella è la verità tu la devi seguire ed è così”, o l’ipocrita che vive il disagio, abbiamo la persona che lavora, serenamente, accoglie la problematica e dice “Questa è la verità, un lavoro che non finisce mai”. Questo è il risultato della visione spirituale, cioè un rapporto dinamico con la verità, un lavoro che non finisce mai, il piacere di camminare, un cammino interiore che si fa esperienza interessante e che può diventare anche cammino insieme agli altri, cammino con la società, un cammino per costruire.
Vi rimando alle prossime puntate di questo cammino, con l’augurio che il tutto possa servire a un’esistenza sempre migliore. Arrivederci a tutti.
Leave A Comment