Ho inserito di proposito nel titolo la parola “oggi”, perché riguardo al relativismo è possibile avere confusione a causa dei modi più o meno errati o ingenui in cui è stato concepito nel passato. L’errore essenziale che è stato commesso, ma che in realtà persiste tuttora, è l’idea che il relativismo ritenga certo che tutto sia relativo. Questo può essere, o può essere stato, un errore del passato o del presente, ma ormai è chiaro che un relativismo concepito in questo modo risulta quanto meno ingenuo. È risaputa infatti l’obiezione secondo cui, se tutto è relativo, anche tale stessa affermazione è da considerarsi relativa e quindi non è possibile assumerla come vera. Un relativismo non ingenuo di oggi conosce quest’obiezione e non cade nell’ingenuità di affermare per certo che tutto sia relativo.
Per fare chiarezza su tutta questa questione è necessario però partire da un altro presupposto, cioè quello dello sviluppo, storico o logico che sia. Cioè, nel concepire il relativismo, la base dell’errore detto sopra consiste nell’inquadrarlo come una posizione, un sistema organico di pensiero, un’ideologia strutturata a sé stante, con i suoi bei princìpi, i suoi assiomi, tra cui l’assioma “tutto è relativo” che sta lì, tra gli scaffali degli assiomi, a fare bella mostra di sé. Questa concezione è errata, perché manca di una visione dinamica, storica, di sviluppo. Il relativismo infatti non è un sistema, ma piuttosto il risultato di uno sviluppo. Per comprendere il relativismo è necessario quindi far riferimento non alle sue presunte affermazioni, al suo sistema di pensiero, ma allo sviluppo di cui è il risultato. C’è da esaminare quindi una storia, un processo, una narrazione; dobbiamo vedere come le cose sono andate e non come siano strutturate in termini di sistemi statici.
Lo sviluppo di cui parlo prende le mosse dall’assunzione della verità; cioè, all’origine di questo sviluppo non c’è il relativismo, ma il suo contrario, cioè un ritenere possibile l’accesso alla verità. Per esempio, guardo un albero e penso “Lì c’è un albero”; penso che ciò sia una verità. Questa verità si fa sperimentare come indipendente da me, quindi in grado di imporsi con forza ed eventualmente anche con violenza. Infatti non posso permettermi di non credere che lì ci sia un albero, poiché le conseguenze pratiche potrebbero essere disastrose.
A questo punto si fa strada un’idea astratta fondamentale, l’idea di universalità. Quell’albero esiste e, così come io non posso permettermi di ignorarlo, anche chiunque altro farà bene a tenerlo presente. Dunque, l’esistenza di quell’albero può essere considerata universale, cioè valida per chiunque. Questo è un concetto chiave della questione, un concetto che ci fa passare al piano metafisico, cioè oltre i limiti di ciò che riusciamo a percepire con i sensi, i limiti del fisico. I sensi infatti mi possono ingannare, ma mentalmente posso pensare che certe verità possano oltrepassare l’inganno dei sensi e quindi riescano ad essere universali.
Un aspetto chiave del concetto di “universale” è la sua capacità di confrontarsi con tutto. Cioè, se una verità è universale, significa che essa è in grado di misurarsi con qualsiasi critica, qualsiasi sospetto, e fornire risposte forti, resistenti. Un esempio di risposta forte universale è il principio di non contraddizione: esso può essere considerato universale perché non è possibile elaborare obiezioni contro di esso senza servirsi di esso stesso e quindi senza assumerlo come universale. In questo modo, qualsiasi obiezione al principio di non contraddizione è istantaneamente l’opposto, cioè una sua conferma.
È a questo punto del discorso che va compiuto il passo decisivo che costituisce lo sviluppo di cui ho parlato sopra. Fin qui infatti abbiamo verificato lo stabilizzarsi di una fiducia nella verità, prima come esperienza empirica (“Lì c’è un albero”), poi come esperienza forte di pensiero metafisico astratto, in grado di reggere a qualsiasi critica (il principio di non contraddizione). Il passaggio chiave per toccare con mano l’evoluzione di questo sviluppo si basa sul concetto di “universale”, a cui abbiamo fatto riferimento sopra. Abbiamo detto che il concetto di universale, forte del suo appoggio sul principio di non contraddizione, avanza la pretesa di potersi misurare con qualsiasi critica e fornire risposte inconfutabili.
Il passaggio chiave consiste nel mettere alla prova, sottoporre a verifica, attuare nelle sue conseguenze più critiche, verificare sul campo, questa caratteristica del concetto di universale. La prova sul campo consiste nel confrontare l’universalità con la presenza della soggettività. Ecco il punto nevralgico: se l’universalità è universale, forte e inconfutabile, deve reggere anche il confronto con l’esistenza della soggettività. Questo punto è nevralgico perché è quello che, al contrario, viene invece sistematicamente ignorato dai metafisici, cioè da coloro che ritengono inconfutabile un’idea forte di verità, quanto meno come verità possibile. Dev’essere anche chiaro che qui intendiamo parlare del fenomeno della soggettività che si pone in atto nel presente dei soggetti coinvolti nella discussione. Non si tratta cioè di esaminare i soggetti come entità oggettivabili, come esseri altri che sia possibile considerare a distanza, con distacco, ma piuttosto i soggetti che siamo noi, il soggetto che sono io, nel presente; non il presente di quando furono scritte queste parole, o il presente di altre persone, ma sempre il presente di chi sta considerando questo discorso, nel momento in cui lo sta considerando. Per questo dico non soggettività oggettivabile, ma soggettività in atto in chi pensa nel presente.
Diventa immediatamente chiara la potenza dirompente, demolitrice, che si sprigiona da questo tener conto della soggettività: l’universalità, se deve tener conto della soggettività, non può più rivendicarsi come universale; viene immediatamente smascherata, messa allo scoperto, la sua non universalità. Una volta compresa la potenza distruttiva del tener conto della soggettività, potrebbero porsi delle obiezioni.
Una consiste nel relativismo del dubbio: va bene la soggettività, ma proprio in quanto relativa essa non può escludere l’esistenza della certezza come possibilità, come ipotesi. Quest’obiezione però non fa altro che rinviare ad un circolo vizioso. Infatti, anche una certezza considerata solo come ipotetica sarà comunque ipotizzata come universale e di conseguenza se ne dovrà ipotizzare il confronto con la soggettività anche nel campo delle ipotesi. Ciò non farà altro che riflettere nell’ipotetico il problema della soggettività che abbiamo considerato in merito al mondo della realtà.
Un’altra obiezione consiste in ciò che dicevamo sopra a proposito del principio di non contraddizione: si potrebbe cioè obiettare che non sia possibile parlare di soggettività relativizzante senza usare come base di pensiero il principio di non contraddizione. Il problema è che l’accettazione della presenza della soggettività mette in questione proprio il principio di non contraddizione. È possibile cioè dare adito al seguente interrogativo: chi mi dice che io stia davvero rispettando il principio di non contraddizione? Chi mi assicura che il principio di non contraddizione non sia contraddittorio senza che io me ne accorga? Ciò che è importante osservare è che si perviene a questi sospetti proprio a partire dall’assunzione del principio di non contraddizione come principio universale. Infatti è proprio l’averlo assunto come universale a condurci al confronto con la soggettività.
Ecco dunque la sintesi dello sviluppo che ho illustrato: se una verità è universale, significa che essa si rivendica come in grado di reggere il confronto con la soggettività; da questo confronto però essa esce come non universale, perché inesorabilmente compromessa dalla soggettività. Non può trattarsi di universalità ridotta all’ipotetico perché, come abbiamo visto, il rinvio all’ipotetico non fa che formare un ambito virtuale in cui doversi ancora confrontare con la soggettività. Dunque, ogni assunzione di universalità ha come sbocco la negazione dell’universalità. Detto in breve, se una cosa è universale, allora non è universale. Se una cosa è certa, allora non è certa. Se una cosa è vera, non è vera. Se la verità esiste, non esiste. Se l’essere è, non è.
Il relativismo che scaturisce da questo contraddirsi della metafisica non sostiene che tutto è relativo; piuttosto, è una presa d’atto dello sviluppo che ho illustrato e quindi un optare per la ricerca di vie diverse, che magari assumano proprio il dubbio, il divenire, lo svilupparsi, il cercare permanente, come basi per modi alternativi di pensare e di essere.
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