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La spiritualità è debole

Per la spiritualità è più connaturato essere debole, essa non può e non deve essere “convincente”. Ho scritto “convincente” tra virgolette per sottolineare il senso originale, etimologico del termine; cioè, la spiritualità non afferma sé stessa a forza di argomentazioni, sia perché non esistono argomentazioni a cui non sia possibile contrapporre critiche e obiezioni altrettanto valide, sia perché il nostro ragionare è in gran misura condizionato da spinte psicologiche e di vario genere, per cui un’argomentazione che fosse anche la più stringente e matematica non potrà nulla contro l’impulso a difendere un proprio bisogno o a mettere in atto un proprio istinto.

La spiritualità si nutre di esperienza, più che di riflessione; anche la riflessione può essere vissuta come esperienza, ma ciò non fa altro che confermare ulteriormente l’importanza di vivere le cose come esperienza, piuttosto che per convinzione teorica. In questo senso anche il confrontarsi, il dibattere, discutere, hanno il loro valore e senso principale nell’esperienza che i protagonisti, attraverso di essi, portano avanti, più che nei contenuti del dibattere.

La capacità persuasiva della spiritualità non può non essere debole; in questo senso l’idea di debolezza è legata al modo in cui l’ha trattata Gianni Vattimo nel suo pensiero debole. A differenza del pensiero di Vattimo, che è una filosofia, nella spiritualità umana ci troviamo, piuttosto che in un “pensiero debole”, in un’ “esperienza debole”. In sintesi, nel confronto con l’altro, con chi la pensa diversamente, la spiritualità si pone modestamente ed essenzialmente come un far esistere in questo mondo un’esperienza; sarà poi l’esperienza stessa a fare la sua strada nel mondo; il nostro compito sarà, più che altro, essere in ascolto di quest’esperienza che fa la sua strada anche in noi, dare il nostro contributo al definirsi di essa e tentare di praticare delle forme di fedeltà, di lealtà, nella misura in cui queste virtù continuano finora ad interessare la nostra sensibilità e il nostro apprezzamento. Anche riguardo a fedeltà e lealtà, non ci troviamo di fronte a valori convincenti, ma soltanto in un muoverci all’interno della nostra umanità, tra istinti, più o meno razionali, autocritica e impulso a vivere e camminare.

Salve a tutti.
Siamo arrivati al post intitolato “Spiritualità come esperienza debole”.

“Esperienza debole” vuol dire che non è “con-vincente”, come ho detto nel blog, cioè non non mira a vittorie, trionfi, conquiste. Qui ne sottolineo alcuni aspetti che possono risultare proprio estremi. Cioè, “spiritualità debole” viene a significare praticamente dover accettare di essere anche senza senso, senza un disegno. È una cosa difficoltosa per la nostra mente perché spessissimo, senza che ce ne accorgiamo, noi umanamente manifestiamo questa tendenza a vedere una logica, a vedere il perché delle cose, il motivo, il senso, verso dove vanno, da dove vengono, eccetera, specialmente in senso esistenziale. Ora, “debolezza” vista come allontanamento da un modo di pensare tradizionale, che prende origine dalla filosofia greca, significa esercitarsi, allenarsi non contare su questo, perché sono cose criticabili, che non reggono alla fine. In questo senso, nel post che ho intitolato “Spiriti di DNA incancellabili”, lì dico che qualsiasi cosa lascia una traccia, fosse anche un atomo che ha cambiato posizione. Qui cerco di controbilanciare, cioè non facciamoci illusioni, non è detto che ci sia necessariamente qualcosa su cui doversi fondare, poggiare, sostenere, eccetera. In altre parole, possiamo tener presente che dire “spiritualità” come esperienza di vita può essere da intendere opportunamente come esperienza locale. “Locale” significa limitata a un tempo e a uno spazio, in maniera tale che, al di fuori di questo tempo e questo spazio, questa spiritualità sarà zero, anche del tutto non esistente, ma questo non come necessità, come verità, ma come possibilità: può anche essere che la spiritualità sia così. Quindi “locale” nel senso di “tempo” significa che quando finirà, quando io finirò, morirò, eccetera, potrà anche essere come se io mai fosse esistito, nessuna traccia, nessun ricordo, niente, zero totale. In questo senso significa che ciò che chiamiamo “speranza”, come condizione della nostra esistenza, è una cosa bella accettabile, da ospitare, eccetera, ma non da far diventare necessaria. Tutto ciò che rende difficoltosa l’accettazione di questa prospettiva è riconducibile alla nostra abitudine, ancora attuale, a pensare alla greca, cioè per universalità, generalità, certezze, insomma in una maniera che potremmo dire metafisica. Tutto questo non è un procedere per esclusioni. Infatti ho cercato di stare attento a non negare la speranza, o il futuro, o le possibilità, eccetera. Appunto si tratta solo di possibilità, quindi nulla viene bandito, ma a tutto è possibile che ci sia un’alternativa. In altre parole ancora, questo potrebbe esprimersi in questo modo: cioè si tratta di non divinizzare, non divinizzare déi. In questo senso ciò che chiamiamo speranza potrebbe diventare un dio nella misura in cui stabiliamo che ci vuole, che è necessaria, che altrimenti non è possibile pensare, vivere, eccetera. Così anche il senso, la necessità di senso, può diventare un dio, se stabiliamo che il senso è necessario o addirittura indiscutibile, c’è e basta, che ci pensiamo o no, ma cerchiamo anche di non divinizzare la negazione di alcun dio. Cioè, sarebbe un equivalente divinizzazione quella che praticano tanti atei, cioè dicono “Non c’è niente”; “E tu come fai a sapere che non c’è niente?”. Non si tratta quindi di stabilire certezze sotto forma di divinizzazioni o, viceversa, divinizzazioni sotto forma di certezze. Si tratta piuttosto di ammettere le possibilità, ammettere la possibilità del non senso totale, che, magari, da un punto di vista meccanicistico, può risultare innegabile. Cioè, qualche atomo pur sempre si è mosso, ma quella è una prospettiva, la prospettiva appunto materialista, meccanicista, e in quanto prospettiva è solo una possibilità.

Detto ancora con altre parole, questo si può dire sotto la forma che la spiritualità poi è storica, fa parte della storia, non è altro che storia, e storia, dal punto di vista alla greca, che chiede certezze, universalismi, eccetera, può essere considerata come una debolezza, per alcuni inaccettabile.

Ora, parlando di storia, la spiritualità può considerarsi storica anche perché necessita di contenuti, necessità di fatti, cioè ha bisogno di qualcosa che succeda, la spiritualità è umana, quindi nasce con noi, nasce con il mondo, si realizza con esso, con i fatti che in essa avvengono e con i fatti di cui siamo anche creatori, non siamo soltanto parte del mondo, ma anche condizionatori del mondo, noi condizioniamo anche il mondo con il nostro modo di essere, di fare e di vivere.

Una precisazione, che direi finale per questa riflessione. La spiritualità è storica, vive di storia, ma ciò di cui si interessa particolarmente non sono tanto i fatti o i contenuti della storia, ma soprattutto lo stile con cui considerarli, con cui viverli, con cui interpretarli. In questo senso ciò che conta per la spiritualità è il modo di fare le cose, tanto più tenendo presente che, almeno da certi punti di vista, il male è inevitabile, non ci possiamo sottrarre ad esso e allora ciò che conta è come viverlo, come affrontarlo, siamo esseri per la morte, ciò che conta allora è come moriamo. Siamo esseri “morenti”, oltre che “viventi”, e in questo senso possiamo ricordare quello che il centurione disse vedendo come Gesù moriva “Veramente era il Figlio di Dio”, come dire: è interessante per noi umani la prospettiva di poter vivere ogni esperienza in maniere diverse, in maniera che magari mai avevamo immaginato. Cioè, anche se i fatti restano uguali, la sofferenza, il male, eccetera, il modo di vivere può rivelarsi una rivoluzione interessantissima per tutta la nostra esistenza. Questo ovviamente rende interessante la spiritualità come prospettiva da approfondire. Vi rinvio quindi alle prossime riflessioni e auguro a tutti un approfondimento sempre più bello, più interessante, di ciò che chiamo, chiamiamo “spiritualità”.

Arrivederci a tutti