Migliaia d’inutili pensieri
inseguono un futuro che non fu,
scomposti, ineducati,
pronti all’inchino
al cospetto del loro Re
che, viscida
serpe immonda,
li divora.
Giorno e ora dei Suoi natali so.
Compagno odiato,
indesiderato,
da sopprimere con ogni arma,
e se tal son io,
or, spento ed
indotto al paradosso,
vincerò il Re
alla morte dei miei pensieri.
Lettura critica
I pensieri sono la cornice di questa poesia, formando, insieme alla figura del Re, una struttura concentrica che ha come centro la consapevolezza di sé, un sé individuato attraverso la data di nascita.
Questi pensieri sono inutili e devono morire, affinché l’autore possa proclamare la sua vittoria contro il Re, questo alter ego da sopprimere. Sembra la missione di uccidere Dio, che Nietzsche presumeva compiuta, ma in realtà tutta da rifare perché nell’oltre uomo ne aveva trovato il sostituto: ucciso Dio, ora bisogna uccidere il sostituto; sembra che poi la missione sia stata portata a termine da Heidegger – Di Martino.
La poesia non offre la ricetta su come uccidere questo nuovo Dio, il Re; al contrario, rimane l’impressione di un dover uccidere continuo, simile alla donna che dovrà in continuazione schiacciare il capo del serpente; e qui il Re è proprio un serpente.
Se i pensieri devono morire, insieme al loro Re, è proprio questa poesia a dover morire, a dover essere dimenticata. Ciò che va dimenticato non è però la poesia in sé, ma le sue parole, affinché vinca finalmente il non detto, l’ineffabile. Insomma, il poeta trova l’ineffabile dentro di sé, lo vuole esprimere, ma si accorge che le parole con cui lo sta esprimendo lo tradiscono, anzi, più che le parole gli stessi pensieri, perciò questi pensieri vanno prima espressi in parole e poi uccisi: non sarebbe affatto bastato il semplice silenzio.
Il tratto conflittuale dell’andamento dice che il silenzio della parola non può verificarsi pacificamente: in mezzo ad esso non è possibile evitare l’odio per quella parola stessa che ne è stata veicolo.
In questo senso, la morte dei pensieri non è tanto la morte del poeta o dell’uomo in generale, ma la morte della memoria: il Re sarà finalmente ucciso quando il lettore, finito l’ascolto della poesia, tornerà alle sue faccende, la dimenticherà, quindi i pensieri saranno morti, ed è allora che finalmente la poesia inizierà nel lettore la sua vera vita, agirà in lui non più impedita dal ricordo delle parole. Insomma, allo stesso modo in cui si leggono tanti libri non per ricordarseli, ma affinché essi plasmino il nostro animo, dopo essere stati dimenticati. Così si può spiegare il senso dei pensieri che inseguono il futuro che non fu: i pensieri insidiano il lettore, dopo che egli avrà letto la poesia, insidiano ciò che si sta per realizzare nel lettore, cioè il futuro senza memoria, il rimanere finalmente plasmato dalla poesia quando non se ne ricorderanno più le parole.
Ovviamente non si tratta di una poesia anti-memoria, ma ci ricorda che va fatta memoria dell’essere plasmati, non delle parole memorizzate. “Fate questo in memoria di me” non significa “Ripetete a memoria queste parole nel futuro”, ma “Prendete coscienza del fatto che io vi sto plasmando”. A questo punto viene a risultare quanto mai bizzarra e micidiale la pratica scolastica di imparare poesie a memoria: significa farsi complici dei pensieri per impedire la nascita del futuro che non fu.
Per quanto riguarda lo stile della poesia, è possibile notare un ripetersi insistente del suono vocale + R (+ vocale) e in particolare del suono “or”.
Migliaia d’inutili pensieri
inseguono un futuro che non fu,
scomposti, ineducati,
pronti all’inchino
al cospetto del loro Re
che, viscida
serpe immonda,
li divora.
Giorno e ora dei Suoi natali so.
Compagno odiato,
indesiderato,
da sopprimere con ogni arma,
e se tal son io,
or, spento ed
indotto al paradosso,
vincerò il Re
alla morte dei miei pensieri.
Questo rutilare della parola forma una specie di tormentone, trasmette l’idea della parola che non se ne vuole andare, a lasciare libero lo spirito, ma nello stesso tempo cede inesorabilmente a questo doversene andare, un suono che insiste, ma inesorabilmente va calando e si dilegua.
Si può infine notare che la poesia, nonostante l’apparenza di scurità, pessimismo, lascia comunque un’impressione non proprio di amarezza; di ciò sembra complice un certo giocare con le assonanze, che vuole allettare il lettore e fargli delle carezze:
futuro che non fu
suoi natali so …. tal son io
indotto al paradosso
cospetto …. or spento
Direi che in questi giochi graziosi si vede che non è del tutto sparito il Di Martino – Trilussa delle poesie scritte in precedenza, che ama prendere e prendersi in giro.
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