In diverse discussioni mi sono imbattuto su quest’argomento e ho visto spesso emergere un’ignoranza di base del testo oppure un’interpretazione di esso che non lo rispetta così com’è, ma ne deforma il senso, in base alle tradizioni che su di esso si sono accumulate. Così ho pensato di mettere a disposizione un’analisi di questa sezione del libro della Genesi. Sarà bene tener presente che la parte qui considerata costituisce un racconto a sé, giustapposto a quanto narrato nella parte precedente, cioè il racconto della creazione in sette giorni. Eventuali connessioni potranno essere comunque riscontrate, anche già per il semplice fatto che al presente i due racconti si trovano uno dopo l’altro nello stesso libro della Genesi.
Può essere utile tener presente un criterio generale con cui valutare il testo: chiedersi, per ogni parola e frase, perché è stata scelta e scritta in quel modo, cosa si sarebbe potuto dire di diverso e, di conseguenza, verso dove orienta il testo nel momento in cui non organizza la narrazione nei modi diversi che potremmo immaginare. Su questa linea, bisognerà anche avere l’abitudine mentale a far guidare i nostri pensieri dal testo e non dalle idee che ce ne siamo fatti, da ciò che il testo sottolinea e pone in evidenza, piuttosto che da ciò che le tradizioni interpretative ci hanno abituato a sottolineare.
2, 4b-6
Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo.
Quest’esordio del racconto contiene una lunga serie di negazioni; esse contribuiscono a creare un’impressione che richiama la situazione iniziale del precedente racconto della creazione, cioè il caos primordiale. Inoltre, le negazioni fanno già sapere, implicitamente, qual è il futuro da raggiungere. Protagonista di tutto questo periodo introduttivo è la terra, menzionata, oltre che direttamente, anche sotto forma di campo e di suolo. La situazione di partenza viene dunque presentata come una situazione negativa, la terra sta al centro dell’attenzione come bisognosa di tutto. L’uomo è preannunciato, ma già nel preannuncio la sua figura è in funzione della terra: si parla di lui non come protagonista di rilievo, ma in funzione delle necessità della terra, che hanno bisogno di essere soddisfatte. La situazione presentata non è dunque di una terra e dei suoi frutti che esistono in funzione dell’uomo, ma l’opposto: l’uomo dovrà essere creato perché la terra ne ha bisogno. Già in questo è possibile intravedere una situazione ambigua o contraddittoria: se l’uomo viene presentato come colui che dovrà soddisfare i bisogni della terra, qual è lo scopo dell’esistenza della terra? Per quale motivo la terra dovrà essere coltivata? Infatti i bisogni iniziali non vengono descritti come bisogni del futuro uomo, ma bisogni della terra in sé e per sé. Non abbiamo alcun riferimento di una terra o dei suoi prodotti che abbiano una qualche finalizzazione verso l’uomo.
2, 7
Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
Da quanto precedeva risulta che il principale bisogno fosse quello della terra, di essere lavorata; perciò la creazione dell’uomo viene a risultare finalizzata a questo: Dio utilizza della terra per fare un aiuto alla terra, aggiungendovi il suo soffio personale: siccome alla terra mancava un aiuto, allora Dio crea l’uomo. Questa dipendenza e finalizzazione dell’uomo in relazione alla terra è evidenziata nell’ebraico dalla somiglianza tra le parole terra (adamàh) e uomo o adamo (adàm): Dio formò Adamo con polvere dell’adamàh. Questo stato di sottomissione dell’uomo nei confronti della terra sarà sfruttato da Dio quando, dopo la trasgressione, ne approfitterà per rinfacciarglielo “…ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”. Il fatto è che già adesso, prima della trasgressione, la condizione dell’uomo viene presentata come asservita alla terra: si tratta di non dimenticare il legame di questo versetto con il precedente.
2, 8
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato.
L’uomo non è lasciato in autonomia nella sua terra, ma è posto in un luogo che è proprietà di Dio. Non è stato l’uomo a decidere di stare in questo giardino, ma Dio decide di porlo in esso. Avrebbe potuto benissimo essere l’uomo a piantare il giardino e decidere di abitarvi, ma invece è Dio che fa tutto senza consultarlo. Dio situa l’uomo in un ambiente che è relazione con lui; c’è da aspettarsi che Dio si attenda che l’uomo viva secondo il significato del luogo, cioè in relazione a chi lo ha piantato. Di conseguenza, l’uomo non è qui destinato soltanto a lavorare la terra, ma anche ad esercitare la sua opera in un luogo che non è suo; psicologicamente pensando, potremmo già qui vedere la difficoltà adolescenziale derivante dall’esigenza di percepire nella propria esistenza una qualche misura di autonomia: si prepara la condizione di un uomo che potrà desiderare di operare “in proprio”, piuttosto che in un giardino che non è suo. Abbiamo quindi già due estraneazioni dell’uomo: 1) è stato creato in funzione della terra, asservito ad essa, 2) viene situato senza sua volontà in un giardino non suo, che gli pone sotto gli occhi il suo non essere proprietario, non essere soggetto, non essere autore.
2, 9
Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Anche le piante che spuntano sono proprietà di Dio: è lui che le ha fatte nascere, non l’uomo. Da ricordare che nel racconto precedente, invece, l’uomo viene creato dopo le piante, come culmine della creazione. L’intenzione di Dio è però positiva: si tratta di alberi piacevoli da guardare e buoni per trarne nutrimento. Insomma, non si tratta di un Dio in malafede, così come non sono in malafede i genitori che non sanno capire i loro figli.
2, 10-14
Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avila, dove si trova l’oro e l’oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.
In consonanza con quanto anticipato nel versetto precedente, l’ambiente presentato è gradevole, meraviglioso; cominciamo a percepire che si stanno affiancando nel racconto due prospettive molto diverse: quella di Dio, che ha cercato di fare delle cose belle, ma non sta capendo il bisogno dell’uomo di avere uno spazio di esistenza percepito come proprio, e quella dell’uomo, come essere su cui si può affacciare la sensazione di stare per essere rinchiuso in una gabbia d’oro.
2, 15
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
Questo versetto ribadisce quanto percepito in precedenza, semmai non fosse del tutto chiaro: è Dio che pone l’uomo dove vuole e lo pone lì per esservi non padrone, ma operaio. Questa percezione ci viene rinforzata non da ipotesi vaghe, ma dallo stesso testo biblico, cioè dal precedente racconto della creazione, capitolo 1, versetto 28, in cui invece l’uomo è presentato come dominatore: “Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra»”. Il contrasto con questo secondo racconto è troppo forte per non essere notato.
2, 16
Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, …
Il versetto inizia col verbo comandare, imporre, seguito, nel testo ebraico, dalla preposizione su, sopra, che lascia intendere il peso di un’obbligazione; secondo questo comando l’uomo mangia degli alberi per licenza di Dio e non perché ne sia il padrone; si conferma la condizione opposta a quella dichiarata nel precedente racconto, 1,26-29: “Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo”. In queste parole del primo racconto l’uomo è un signore che fa da padrone, su cui Dio pone felicemente tutta la sua fiducia, senza alcun limite; ora invece è un essere assoggettato a comandi in un territorio non suo.
2, 17
… ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire».
Perché Dio ha piantato quell’albero se non è per l’uomo? Perché Dio minaccia morte quando l’uomo non ha ancora fatto nulla? Evidentemente l’uomo si trova qui ad esistere in una condizione pesante da sopportare. Il giardino, piuttosto che un luogo paradisiaco, appare un luogo in cui l’uomo sta come un estraneo che deve stare attento a come comportarsi, perché già Dio si è messo dalla parte del sospetto contro di lui. Il legame con Dio, che il giardino doveva significare, si rivela un legame di degrado, frustrazione. Sembra che in questo contesto sia presente quel senso psicologico di problematica dei rapporti con la figura del padre, che Etienne Charpentier individua invece nel racconto di Caino e Abele. Qualunque sia il modo in cui si voglia interpretare la conoscenza del bene e del male, si tratta comunque di conoscenza, cioè di un alto diritto inerente alla dignità umana, che all’uomo viene negato: l’uomo è trattato e pensato da Dio come un bambino immaturo. Da tutti questi elementi negativi che si vanno accumulando, ci troveremo condotti alla conclusione che, in realtà, Dio stesso ha creato le premesse perché si verificasse il peccato di Adamo.
2, 18
E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Nella prospettiva che abbiamo seguito sembra strana questa preoccupazione di Dio: Dio vede il disagio umano della solitudine e cerca di colmarlo; ma, se ci riflettiamo, in realtà l’uomo non è solo, perché c’è già Dio come compagno; dunque, questo riconoscimento da parte di Dio viene a significare che l’uomo non poteva trovare compagnia in Dio, non solo perché è Dio e non un essere umano come lui, ma, ancor più, perché Dio si è dimostrato distante dalle esigenze psicologiche dell’uomo. Ora Dio non può fare a meno di ammettere che quest’uomo ha bisogno di una compagnia per conto proprio; quest’ammissione denuncia un fallimento di Dio come essere capace di dare compagnia soddisfacente. Anche in questo caso non si tratta di avanzare ipotesi gratuite: è il testo biblico stesso a provocare queste riflessioni e anche in questo caso si tratta del racconto precedente, 1,26-27: “Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”. In questi due versetti viene, al contrario, espressa enorme vicinanza e solidarietà tra Dio e l’uomo, l’opposto del non trovare compagnia: di Dio e dell’uomo viene esaltata la somiglianza; inoltre, a somiglianza di Dio l’uomo domina sugli animali. Addirittura il testo, così com’è strutturato, lascia sospettare che anche il fatto di essere maschio e femmina costituisca un modo di somigliare a Dio. È solo la nostra logica a impedirci di immaginare quest’ultima somiglianza, ma la struttura del testo “a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” presenta l’essere maschio e femmina quasi come se fosse una conseguenza dell’essere simili a Dio.
2, 19
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Per dare una compagnia all’uomo che si sente solo, Dio non sa fare di meglio che formare alcuni animali. È un provvedimento che somiglia a quei genitori che per tener calmi i loro bambini li colmano di giocattoli oppure li parcheggiano davanti al televisore. Visto che si tratta di un provvedimento per colmare una tristezza dell’uomo, Dio lascia anche che sia lui a dare il nome a questi nuovi esseri, un gesto che indica dominio, proprietà, e recupera un aspetto di somiglianza con Dio, se teniamo presente che nell’altro racconto è Dio invece a dare il nome alle cose che man mano crea. Dio riconosce ora all’uomo un diritto di proprietà sugli animali, mentre invece le piante risultavano come date solo in concessione; per l’albero della conoscenza non c’è neanche questo, ma solo divieto di mangiarne.
2, 20
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
È impietoso questo riconoscimento finale sul fallimento di Dio nel voler creare un aiuto all’uomo, esattamente come il fallimento di cui abbiamo detto, dei genitori che, per far stare buoni i loro bambini, li colmano di giocattoli. Il testo lascia addirittura sospettare la conclusione che, se l’uomo si fosse accontentato degli animali, la donna non gli sarebbe stata creata. Al fondo viene a formarsi il ritratto di un Dio che è armato di buona volontà, ma non riesce a capire l’uomo e le sue esigenze.
2, 21-22
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Il comportamento di Dio viene ad essere sempre più improntato al cedimento: di fronte alla sconsolatezza di quest’uomo, Dio decide di espandere il suo corpo e farlo diventare plurale e sessualmente composito: d’ora in poi l’uomo, in questo territorio che non è suo, potrà avere la prospettiva di incontrare finalmente dei compagni suoi simili. Vista la situazione che si era venuta a creare, non è difficile intravedere che uno sviluppo probabile sarà l’ammutinamento, il gruppo contro il capo, per l’esigenza di avere spazi in cui finalmente potersi affermare come soggetti e padroni.
2, 23
Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».
Se teniamo presente la situazione che si è venuta a creare, il testo viene a risultare espressione di una gioia umana incontenibile, la gioia di aver trovato finalmente uno spazio in cui poter operare senza dover rendere conto ad altri. Ora è nato un altro mondo, il mondo dell’uomo: i pronomi possessivi lo testimoniano con forza. Si noti che in questo versetto è assente qualsiasi riferimento a Dio; al contrario, nell’altro racconto, 1,27, la creazione dell’uomo era stata espressa con insistenti e perfino ripetitivi riferimenti che rinviavano al creatore: “E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”.
2, 24
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Nel racconto precedente veniva sottolineata la somiglianza con Dio, al punto da porre problemi teologici su come intenderla. Anche qui c’è una somiglianza su cui il testo vuole insistere con tutta la sua forza, ma non è la somiglianza con Dio. Si tratta invece della solidarietà con questa nuova creatura, la donna. Questo destino finale di ricongiungimento alla propria carne, visto che la donna era stata tratta dalla carne dell’uomo, viene ad essere una forte contrapposizione all’altro amarissimo ricongiungimento, che invece sarà oggetto della maledizione di Dio: il ricongiungimento, a motivo della morte, con la terra, da cui l’uomo era stato tratto. Dietro questa prospettiva di ricongiungimento con la donna, una prospettiva nient’affatto spiacevole, che dall’altro lato è un allontanamento da padre e madre, si può intravedere, sospettare, un implicito, nascosto, allontanamento, come rivalsa, da un altro padre, che è il Creatore, Dio.
2, 25
Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.
Il nuovo mondo dell’uomo è adesso un vero mondo di felicità: non esistono problemi di relazione di alcun tipo. Nel giardino con alberi belli e buoni era stato imposto il divieto di sapere troppo, che implica, nascostamente, un divieto di avvicinarsi troppo a Dio, tentare di essere troppo simili a lui, al contrario del racconto precedente che esaltava la somiglianza dell’uomo con Dio. Ora, con la sua donna, l’uomo può invece sperimentare la libertà di sapere e fare tutto, nulla è vietato, non ci sono frutti da non mangiare, non c’è niente di cui ci si debba vergognare. Si sta venendo a creare però un mondo che è parallelo al mondo delle proprietà di Dio; non sarà più un esistere pacifico con Dio, ma piuttosto un procedere verso l’essere come Dio.
3, 1-5
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Il serpente rappresenta il momento in cui il mondo dell’uomo e il mondo di Dio si devono confrontare; come animale, fa parte degli esseri in cui l’uomo non aveva riconosciuto una compagnia adatta per lui. Il testo tiene a ricordare che esso è una creatura di Dio: rappresenta il mondo delle proprietà di Dio acquisite dall’uomo, ma messe poi da parte perché non adatte per trovare compagnia contro la propria solitudine. In quanto tale, esso non può essere un protagonista capace di parlare; come dono che era stato messo da parte, sta lì a testimoniare l’incomprensione di Dio sull’uomo, Dio che all’inizio non ha saputo fare un regalo adatto al festeggiato; il festeggiato sarà costretto a pensare qualcosa di questo tipo: “Dio si sforza di fare qualcosa di buono, ma non mi capisce: non sa farmi regali che mi piacciono”. Di passaggio, potrebbe essere molto interessante un confronto con Matteo 7, 9-10: “Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe?”. Così le parole del serpente vengono ad essere simbolo dell’uomo che, guardando al dono mal riuscito, dimostra a sua volta di cominciare a svisare le intenzioni di Dio. Tutto il dialogo diventa così il progredire di questa incomprensione. L’uomo si va dirigendo verso la liberazione del desiderio di diritto: il desiderio di conoscenza.
3, 6
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.
Il testo, per come è strutturato, non dà affatto l’impressione di un’aperta ribellione a Dio: fa guardare e sentire le cose al lettore dal punto di vista della donna e così permette di rendersi conto dei motivi che lei ebbe per decidere di mangiare di quel frutto; viene descritto un decorso mentale estremamente graduale, che impercettibilmente passa alla trasgressione di fatto. Al contrario di quanto è stato fatto da secolari tradizioni interpretative, il testo non orienta a considerare l’azione della donna come un gesto di ribellione. Il testo non sta dando colpe a nessuno, né a Dio, né al serpente, né alla donna. Sta descrivendo una situazione vitale che non chiede tanto di essere compresa, cosa praticamente impossibile, come hanno dimostrato le tante interpretazioni colpevolizzanti, ma piuttosto di essere assunta, rivissuta, fatta propria e resa poi oggetto di vita susseguente. Ciò a cui il testo orienta non è il farsi un’idea su chi sia il colpevole: al contrario, il testo sembra fare di tutto per impedire il discernimento di ciò; esso orienta piuttosto all’esperienza di una narrazione vitale, spirituale, affinché essa sia d’aiuto alla vita di chi la leggerà; l’aiuto dovrà consistere non nella comprensione, ma nell’esperienza stessa del testo e della spiritualità che vi è contenuta.
3, 7
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Il testo che precede dice con chiarezza che Adamo ed Eva avevano già prima occhi ben funzionanti: già lo stesso versetto precedente ha appena menzionato proprio gli occhi a proposito della gradevolezza dell’albero. Ma allora, se gli occhi erano già aperti e però il testo dice che ora si aprirono, se già non provavano vergogna e però ora fanno conoscenza del loro essere nudi, cosa possiamo pensare? Ciò che conta è cercare di rispettare al massimo il testo, sforzandoci di non inventare nulla che non sia espresso da esso, almeno implicitamente, ma comunque in modi dimostrabili. Possiamo pensare che adesso i loro occhi si aprirono a qualcosa che prima non vedevano, modi di guardare le cose che prima non avevano sperimentato. Ma cos’è che prima non vedevano e non sperimentavano? La risposta qui è semplicissima, chiarissima, perfettamente espressa dal testo: non avevano mai visto e sperimentato le cose dal punto di vista di chi sa di aver trasgredito un’imposizione. Con la coscienza di aver trasgredito, ogni consapevolezza viene a risultare modificata, il sapere e vedere non sono più motivo di felicità, libertà, assenza di vergogna, come prima il testo aveva detto. L’origine di questa modifica non si trova in qualche potere speciale contenuto all’interno del frutto. L’origine sta nel fatto che Dio l’aveva vietato. È questo che ha reso il frutto portatore di una prospettiva turbante, spiazzante. Così come la sapienza contenuta nel frutto dell’albero era stata presentata da Dio come qualcosa da nascondere all’uomo, qualcosa da vietargli, ora, a causa del sentirsi trasgressore, l’uomo viene contagiato: anche per lui adesso ogni sapienza, ogni conoscenza, ogni vedere, diventa motivo di turbamento, qualcosa di inevitabilmente inquinato, qualcosa che dev’essere nascosto e vietato. In questo senso l’inquinamento del sapere non investe soltanto il sesso, che viene nascosto con le foglie di fico: ciò viene a risultare solo un simbolo dello sconvolgimento che investe ogni sapere, ogni vedere; ora nulla è più come prima. Subito dopo infatti l’uomo si sentirà in necessità di nascondersi da Dio, dirà di averlo fatto perché è nudo, ma l’andamento del racconto mostra ormai chiaro che il vero motivo della vergogna non è l’essere nudo, ma l’essere diventato trasgressore. Insomma, Dio, inventando il divieto di mangiare dell’albero, ha inventato con esso l’esperienza della curiosità vietata, la conseguente trasgressione e il conseguente sentirsi trasgressori, che modifica inesorabilmente la visione di ogni cosa.
3, 8
Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.
Così come Dio aveva reso l’albero della conoscenza qualcosa che doveva rimanere nascosto alla diretta esperienza umana, ora l’uomo considera sé stesso qualcosa da nascondere alla diretta esperienza di Dio. Ora nel giardino ci sono due cose oggetto di negazione dell’accesso: l’albero della vita, vietato da Dio e poi profanato, e ora l’uomo, vietato a Dio dall’uomo stesso. È tutto un nascondere: si nasconde il corpo, ci si nasconde da Dio. Il comando che era stato imposto precipita con tutto il suo peso sopra l’esistenza dell’uomo.
3, 9-13
Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Ora si svolge il processo. Le difese si rivelano vane, deboli: vanno a concludersi su un principio, il serpente, il quale non cancella però le responsabilità individuali, ma neppure permette di individuarle: se cerchiamo il peccato con e nella nostra coscienza, troviamo solo innocenza o, tutt’al più, un non sapere. Così il processo, più che definire la verità, cerca, anche a costo di inventarli, dei colpevoli da punire, per dare una soddisfazione al bisogno di risposte e di giustizia. Se guardiamo bene il racconto, però, si tratta di una giustizia la cui esigenza è unilaterale, non si tratta di un patto, un’alleanza, che siano stati infranti, perché non c’è stato tra Dio e l’uomo nessun patto, nessuna alleanza. 2,16 è stato chiaro: Dio aveva imposto sopra l’uomo il divieto, ma si tratta appunto di un divieto imposto, all’uomo non è stato concesso nessuno spazio di accettazione o rifiuto, allo stesso modo in cui era stato posto di peso nel giardino, senza essere interpellato. Che cosa avrebbe infranto dunque l’uomo, una volta che di fatto non ha mai avuto spazio di esprimere a Dio alcun consenso, alcun accordo? Così, più che testimone di qualche giustizia, il processo appare come il momento di passaggio doloroso in cui si deve definire il cambiamento verso cui procedere; ogni cosa è messa in questione, non esistono appigli di sorta; rimane solo da affrontare coraggiosamente il futuro, man mano che, nel corso del processo, si farà chiaro e presente.
3, 14-15
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
Così come Adamo ed Eva ci vedevano già prima della trasgressione, allo stesso modo il testo non consente di dedurre che il serpente non si sia mosso da sempre strisciando. Questo fatto ora però diventa una cosa nuova, perché viene guardato dalla nuova prospettiva di trasgressori che guardano tutto con sospetto, meraviglia intimidita, paura, diffidenza. La diffidenza è la nuova chiave di lettura che investe ogni sguardo, ma il primo a diffidare era stato Dio, minacciando l’uomo di morte quando egli non aveva ancora dato alcun motivo per cui Dio dovesse esprimergli quella diffidenza.
3, 16
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà».
Anche qui il testo non permette di supporre che prima il parto fosse indolore; esso sta presentando dei momenti simbolici che caratterizzano l’intera esistenza degli esseri oggetto della sentenza. È l’intera esistenza ad essere stata sovvertita da tutta la vicenda e sarà bene avere chiaro che, in base al testo, il sovvertimento di quella che avrebbe potuto la bella e semplice storia di un’amicizia ha avuto inizio non con la trasgressione, ma più a monte, con l’imposizione del divieto; un divieto che il testo lascia del tutto inspiegato, immotivato, senza compiere mai alcun tentativo di aiutarne la comprensione.
3, 17-19
All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».
Nel racconto precedente, in 1,29, l’erba come cibo fa parte di un contesto di esistenza felice per tutti: “Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo”. Qui invece mangiare l’erba diventa segno di maledizione: si tratta sempre degli stessi gesti della vita, che ora mutano il loro significano e la percezione con cui vengono sperimentati.
3, 20
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
L’imposizione del nome viene a confermare la posizione di dominio che era stata dichiarata nel versetto 16b: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà”. Possiamo anche osservare che in 2,23 l’uomo aveva già dato un nome alla donna: “La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta”; ora però l’attenzione si rivolge al generare, nonostante le maledizioni di Dio. Eva, con la sua capacità di generare, è diventata l’unica speranza dell’uomo, l’unico suo punto di riferimento per vivere.
3, 21
Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì.
Gli abiti assumono qui un significato ambiguo: possono indicare protezione da parte di un Dio che, anche se arrabbiato, non vuole la morte delle sue creature, ma sono anche preparazione dell’allontanamento; ora è Dio stesso a voler nascondere dai propri occhi i corpi dell’uomo e della donna, come se anche lui fosse turbato dalla loro nudità. D’altra parte, egli è stato l’iniziatore di questo turbamento generale, quando ha manifestato all’uomo la sua diffidenza, e ora prosegue con questo suo vedere le cose senza serenità.
3, 22-23
Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto.
L’uomo ritorna ora nella sua autonomia e nello stesso tempo è costretto a portare con sé la coscienza di un conto in sospeso: non è possibile vivere in pace, perché tutte le relazioni sono state stravolte. Il lavoro del suolo ribadisce una relazione con il suolo, antitetica rispetto a quella con Dio, che, almeno per il momento, è risultata impossibile. L’uomo era stato creato perché lavorasse in un giardino non suo, ora almeno lavorerà in una terra con cui, nonostante le spine, i cardi e il sudore, sente una familiarità perché è con essa che Dio l’aveva impastato per crearlo. A questo proposito si può osservare che nel racconto precedente non veniva detto da dove Dio avesse preso il materiale per fare l’uomo: Dio lo fa e ciò che viene detto immediatamente è che è a sua immagine, 1,26-27: “Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”; è quasi come se Dio avesse creato l’uomo traendolo da sé stesso, così come la donna è risultata uguale all’uomo perché tratta dalla sua carne. In questo secondo racconto invece Dio ha tratto l’uomo dalla terra, un elemento che contribuisce ad esprimere distanza tra il creatore e la creatura.
3, 24
Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita.
Questo versetto lascia sospettare qualcosa: i cherubini in guardia suggeriscono l’ipotesi di un ritorno. C’è l’idea di un’attesa: fare la guardia significa attendere chi potrebbe venire. È qualcosa di somigliante al padre del figliol prodigo, che aspetta il ritorno del figlio (una situazione presupposta in Lc 15,20: “… Quando era ancora lontano il padre lo vide…”), sebbene qui l’attesa risulti finalizzata al mantenimento della separazione, piuttosto che alla speranza di un ricongiungimento.
Considerazioni d’insieme
Il testo non si fa preoccupazione di difendere Dio o fargli fare comunque bella figura: è testimone di una ricerca sincera che deve continuare e permette di percepire in quella Parola un Dio che parla senza nascondere nessuna delle difficoltà inerenti al suo stesso parlare.
L’eventuale difficoltà ad accettare un’interpretazione che non si fa scrupolo di nascondere le insufficienze di Dio, che emergono dal testo, deriverà certamente da uno stile acquisito nell’affrontare problemi di teodicea: nell’inchiesta teologica sui problemi di Dio si percepisce che il contesto mentale diventa quello di un processo: l’accusato è Dio: nei suoi riguardi fa problema ciò che la sua stessa Parola dice. In questo processo si è di solito scelto uno stile improntato essenzialmente alla difesa di Dio, partendo dal presupposto che non potremo concludere con affermazioni che lo condannano: ne andrebbe della fede dei credenti. Questo metodo di ricerca è viziato da un presupposto aprioristico: il timore dello scacco di Dio; questo timore, legato ad un sacro rispetto, ha portato le menti a partire subito con la difesa: se il processo su Dio ha un inizio, una continuazione e delle conclusioni da trovare, nell’incertezza sulle conclusioni che potrebbero uscire fuori e nella paura legata a quest’incertezza, si è impostato tutto il procedimento fidando più sulla nostra capacità di “timonieri” del processo, piuttosto che sulle carte del processo, cioè la sua Parola. Come dire: quando la Bibbia comincia a provocarci paura, aumentiamo senza scrupoli la nostra ingerenza ermeneutica, frenando solo quando ci accorgiamo che la correzione del senso è stata ottenuta. Qui invece ho proceduto con un diverso atteggiamento: ho cercato di far parlare il testo, anche quando esso poteva appare problematico per l’elaborazione delle idee su Dio: trovo più corretto pensare che Dio, per chi lo voglia seguire, deve e sa difendersi da sé e non è quindi necessario che noi cominciamo, sin dall’inizio, a dare colpi di timone interpretativi per salvare la sua immagine.
Tornando al testo esaminato, ho già lasciato intravedere nel commento vari aspetti di positività, ma si può ancora aggiungere che il testo presenta una diversa immagine complessiva di Dio: trattandosi di un testo che da millenni è stato letto come Parola di Dio, il credente si troverà condotto a pensare a un Dio che parla senza pretendere di chiarire tutto, senza voler nascondere i punti oscuri, fiducioso nel fatto che il fedele saprà apprezzare la sua sincerità e saprà comprendere le incongruenze come effetto della distanza tra lui e lo strumento usato per comunicare, cioè il linguaggio; qualcuno a questo punto potrebbe pensare che stiamo tornando a difendere Dio rimandando ogni difficoltà all’inadeguatezza del linguaggio, ma c’è una differenza: io ho prima voluto percorrere in dettaglio le difficoltà che emergevano, senza pormi alcun divieto, sapendo che da quei testi poteva emergere man mano non solo qualche difficoltà da risolvere, ma anche qualche spunto capace di far progredire le idee su Dio.
La difficoltà di un Dio che non sa indovinare subito cosa sia meglio per il suo uomo può anche aiutare a pensare a un Dio che non definisce il mondo secondo i suoi criteri di ineffabile perfezione, ma vuole anche sentire il parere di questa sua creatura, che egli intende elevare al grado di interlocutore rispettabile.
La cacciata finale dal giardino può far pensare a un Dio che non riesce a mettersi d’accordo col suo uomo; nel tempo di questa separazione Dio ricostruisce la sua propria identità (lo dimostra il decorso successivo della storia “salvifica”; possiamo anche tener presente che l’identità non si definisce da sola, ma in relazione a qualche interlocutore) e permette che il suo uomo lo faccia a sua volta: si rimanda ad appuntamenti futuri per successivi confronti a tu per tu; con la venuta di Gesù il confronto sarà posto in termini nuovi, grazie al tempo passato per rivedersi; oggi il confronto viene a porsi in termini che fanno tesoro dell’una e dell’altra esperienza; Dio può essere pensato come uno che continua a rivedere la sua identità e a manifestare il suo progredire. Questo linguaggio può apparire assurdo ad una filosofia della perfezione metafisica di Dio e della definitività del depositum fidei cristiano, ma può dimostrarsi capace di fomentare speranze a un uomo d’oggi che sospetta ancora la possibilità di aver fiducia in Dio, ma non trova i termini in cui comporla nella sua cultura e umanità.
Per chi voglia approfondire lo studio del testo della Genesi consiglio due commentari, che purtroppo però esistono uno in tedesco e inglese, l’altro solo in inglese:
Claus Westermann, Genesis, 1981, in tre volumi e in un’edizione ridotta in unico volume.
Gordon J. Wenham, Genesis, 1987, in due volumi.
Leave A Comment