Bella e sensuale si offre
ai miei occhi di ladro d’energie,
sempre in cerca di scampoli di coraggio
da opporre alla paura dell’ignoto,
disilluso, com’or sono,
da secoli d’erudita filosofia.
Lei è la Luna, dipinta nel buio
che, splendida nel suo candore,
ricambia il mio languido sguardo.
M’osserva, pia, trascinarmi,
come maschera del dramma greco
fino a quel dì,
vanamente intento
a rubare l’altrui ardire,
dalla cattiveria della maggioranza
diluito e soggiogato.
Sorrido, e non mi resta che la consolazione
di qualche amore conquistato a sacrifici.
Sorrido, e non mi resta che l’ammirazione
per quegl’impavidi mortali
che, anche per me
e senza remora alcuna,
andarono un giorno a toccare la Luna.
Premessa
Sarebbe stato facile chiedere allo stesso Di Martino lumi sui significati presenti in questa poesia, ma preferisco normalmente attenermi all’abitudine acquisita nell’esegesi biblica: ciò che ho davanti è il testo e inoltre esso, una volta prodotto, vive di vita propria, è in grado di avere significati anche del tutto estranei alle intenzioni dell’autore.
Una considerazione generale
Questa di Di Martino si può definire una poesia “dialettica”, perché manifesta due contrapposizioni: è possibile sentire come due voci alternative del poeta, una superficiale, una seconda più profonda; c’è inoltre la contrapposizione tra forza e debolezza.
Commento dettagliato
Bella e sensuale si offre
ai miei occhi di ladro d’energie
Già nei primi due versi emerge il doppio Di Martino: in superficie egli è il ladro di energie, quindi l’uomo massificato, banalizzato, che la società continua a pungolare affinché egli vada cercando in continuazione forza ed energia: si pensi a come oggi gran parte di ciò che circola nella società viene concepito come qualcosa che deve dare energia, perché l’uomo della nostra epoca si sente sempre a corto di energia, dovendo inseguire i ritmi frenetici della società dei consumi. Ma questa è solo la pelle del Di Martino. Sotto la pelle ci accorgiamo che c’è il non comune: non è dell’uomo massificato accorgersi che la luna non è tanto romantica o bella, ma provocante, sensuale; sensuale significa che il poeta si sente attratto da essa con una forza profonda paragonabile all’attrazione che una bella donna è in grado di suscitare in un uomo. Inoltre non è dell’uomo massificato accorgersi che la ricerca di energie ci fa essere ladri: ladro è chi vuole appropriarsi abusivamente di ciò che appartiene ad altri; l’uomo massificato che vuol essere energetico non si accorge che in questo modo asseconda meccanismi di oppressione che trasformano inevitabilmente lui stesso in oppressore, quindi in ladro.
sempre in cerca di scampoli di coraggio
da opporre alla paura dell’ignoto
Un ladro non può acquistare il coraggio in blocchi ordinati, ma lo ruba sotto forma di scampoli sfilacciati, come quando ruba la borsetta a una donna e se la trova tra le mani strappata e sfilacciata per l’atto di violenza. Ora il Di Martino ladro si vede guardato dalla luna e gli viene la tentazione di rubarle qualcosa, tanto più che essa è circondata dal buio, dall’ignoto, e si presenta quindi come una che in qualche modo riesce a superare questo problema.
disilluso, com’or sono,
da secoli d’erudita filosofia
La filosofia è fallita, perfino in chi non voleva essere massa ha lasciato solo disillusione, ma il Di Martino non è un filosofo e questo diventa per lui un vantaggio: non è da filosofi sapersi accorgere della via indicata dalla luna.
Lei è la Luna
Ci tiene Di Martino a dire al lettore che la sua Luna ha la elle maiuscola ed è una lei, cioè una persona. Ma perché persona? Ce lo spiega lui stesso poco più avanti, autoritraendosi “come maschera del dramma greco”: ricordiamo che l’etimologia della parola “persona” è collegata al concetto di maschera, adoperata nelle tragedie greche. Nel confronto tra queste due persone, il poeta si riconosce fallito: lui, che sarebbe la vera persona, si vede come un residuo di persona, ridotto ad una maschera, mentre la luna, che sarebbe solo un oggetto, è invece considerata una lei, cioè una che davvero è persona. Cosa significa questo? La personificazione della luna non ha qui la portata di una personificazione religiosa, questa non è una poesia religiosa; l’essere “pia” della luna non si riferisce certo a qualcosa di religioso, ma piuttosto a pietà verso l’uomo-maschera. Perché allora in questa poesia la luna è una persona? La risposta a questa domanda non si trova in qualche verso della poesia, ma nell’essere stesso di questa poesia: la luna è colei che ha dettato a Di Martino questa poesia, è la musa che lo ha ispirato, la luna è la poesia stessa che stiamo leggendo: affidando a noi questa poesia il Di Martino sta affidando a noi quella stessa luna da cui egli si è sentito guardato. È nel darci questa poesia che il Di Martino smette di essere maschera e riconquista pienamente il suo essere persona, che la luna gli ha permesso di recuperare.
Ma come può essere che la luna abbia fatto recuperare al poeta il suo essere persona? La risposta è nei versi che seguono:
dipinta nel buio
Questa luna è anche opera umana: il poeta la guarda in cielo, ma guardandola la interpreta, la considera a modo suo. Il poeta si accorge che egli, mentre guarda la luna, la sta in realtà dipingendo; questo non è altro che ciò che dagli specialisti dell’interpretazione viene chiamato “circolo ermeneutico”, per indicare che, quando leggiamo un libro, il libro sta anche leggendo noi, noi interpretiamo il libro, ma siamo a nostra volta interpretati da esso. Ecco perché il poeta sente ricambiato il suo sguardo sulla luna, luna che egli ha dipinto attraverso il proprio sguardo, come se i propri occhi fossero un pennello:
che, splendida nel suo candore,
ricambia il mio languido sguardo.
Questo sentirsi ricambiato nello sguardo è un sentirsi ricostruito nella propria persona, potremmo quasi dire come un bambino che cresce e si sviluppa anche grazie al sentirsi guardato dalla mamma; ma qui la luna non è una mamma, è piuttosto una compagna di viaggio, del viaggio in cui il poeta trascina sé stesso:
M’osserva, pia, trascinarmi.
Ma come può essere che lo sguardo della luna riesca a far recuperare al poeta il suo essere persona, da maschera a cui egli si sentiva ridotto? Questo può avvenire perché la luna riesce a risvegliare nello sguardo, cioè nell’animo del poeta, la sensibilità per il candore:
splendida nel suo candore.
Cos’ha di così importante questo candore, tanto da restituire la personalità al poeta? Questo candore è l’essenza, il centro di questa poesia, perché è la risposta debole, disarmata, vulnerabile, all’uomo-massa che, mirando invece alla forza, all’armamento, all’invulnerabilità, ha reso l’esistenza in questa terra un inferno. Quest’uomo massa è il Di Martino ladro, contrapposto al Di Martino che invece si lascia guardare dalla luna, sono i filosofi che sono caduti nella disillusione, è la
cattiveria della maggioranza
sono
quegl’impavidi mortali
che
senza remora alcuna,
andarono un giorno a toccare la Luna.
È questa la dialettica di cui dicevamo tra la forza e la debolezza.
fino a quel dì,
vanamente intento
a rubare l’altrui ardire
“Quel dì” è ovviamente la morte e in questa poesia anche la morte è doppia, in base alla via che scegliamo: per il ladro la morte è vana, inutile, è perdita di significato per un’esistenza già senza significato. Ma essa può capovolgere il suo significato in base a come s’intende “l’altrui ardire“: se quest’ardire è quello del ladro, allora tutto è vano; ma il poeta vuole sottrarre quest’ardire
dalla cattiveria della maggioranza
diluito e soggiogato.
L’ardire è cattivo perché reso tale dalla cattiveria della maggioranza. Ma c’è un ardire pulito, che è quello che è emerso nel poeta proprio nello scrivere questa poesia, nel portare alla luce il sentirsi guardato dalla luna. In quest’altro ardire la morte è invece significativa, perché è il morire di uno che si sta adoperando a recuperare le cose inquinate
dalla cattiveria della maggioranza.
Che dalla maggioranza quest’ardire sia stato
diluito
non può non farci pensare al filosofo Zygmunt Bauman, scomparso lo scorso 9 gennaio 2017, il quale ha introdotto il concetto di “società liquida”, cioè una società che liquefà ogni certezza, ogni punto di riferimento, provocando la disillusione dei
secoli d’erudita filosofia.
Sorrido, e non mi resta che la consolazione
di qualche amore conquistato a sacrifici.
Le ultime due strofe esordiscono entrambe con questo “sorrido”, ma non si tratta di un sorridere di chi si sente superiore, di chi pensa di aver capito meglio degli altri. Al contrario, è il sorriso modesto di chi non si fa illusioni anzitutto di sé stesso, ed è proprio questo che la luna gli ha insegnato col suo sguardo, perché anche la luna non è poi altro che una parte di questo mondo e la sensualità del suo sguardo è una sensualità candida. Il poeta dunque non accusa il mondo, non colpevolizza la società cattiva, ma si riconosce uomo come gli altri, che cammina in questo villaggio globale, provando anche lui le gioie dell’amore elargite dalla vita familiare, sentite come una conquista per anni di lavoro, sacrifici, cose che ogni buon padre di famiglia conosce bene.
Sorrido, e non mi resta che l’ammirazione
per quegl’impavidi mortali
che, anche per me,
e, senza remora alcuna,
andarono un giorno a toccare la Luna.
In questa strofa c’è il culmine dei doppi significati, della dialettica, delle contrapposizioni contenute nella poesia. Il Di Martino modesto, che si riconosce parte della massa, non si fa mistero di ammirare l’uomo che è andato sulla luna, ma dire “senza remora” fa pensare anche alla presunzione, all’orgoglio vano. Anche il “toccare” è doppio: è stato più grande il tocco delle tute degli astronauti sul suolo del pianeta luna o il sentirsi toccato del poeta dallo sguardo della Luna con la elle maiuscola, che è una lei? Ma anche qui il poeta non vuol fare l’accusatore, si vede che ha imparato bene dalla maestra Luna, la quale non accusa nessuno. La sua ammirazione per gli astronauti è sincera; egli si presenta semplicemente a chiunque come compagno di viaggio.
Sintesi
Questa poesia mostra dunque un messaggio di umanità alternativa a quella della ricerca di forza: si tratta dell’alternativa di un modo di essere modesto, che però non si limita alla modestia superficiale fine a sé stessa, ma la porta avanti come atteggiamento, metodo di ascolto con cui muoversi nella propria sensibilità; esplorando la propria sensibilità, il poeta incontra il chiarore della luna e intuisce che questa levità, leggerezza, questo candore che non tutti sanno vedere come addirittura sensuale, è la via da seguire se vogliamo costruire un mondo diverso.
Salve a tutti.
Siamo arrivati al post che è dedicato alla poesia di Pietro Di Martino “Disilluso”.
Il contenuto su cui mi sono concentrato nel commento di questa poesia può essere collegato a quello che dicevo nel video precedente, a proposito dell’importanza di mettere in dialogo soggettività e oggettività.
Il poeta che dialoga con la luna, si sente guardato da essa, può essere considerato come colui che dialoga con la sua soggettività, perché la luna viene ad essere come uno specchio di sé stesso, un simbolo del suo animo interiore. Però lo sguardo della luna è comunque come lo sguardo di un altro che mi guarda e quindi come uno sguardo oggettivo, critico, su me stesso. Per questo, dicevo, il rivolgersi alla luna, la poesia alla luna, può essere considerata come questo mettere in atto ciò che dicevo nel video precedente, mettere in atto questo dialogo tra soggettività e oggettività. Questo porlo in atto senz’altro crea una sensazione di pace, di benessere, di piacere, e questo non solo nella poesia di Di Martino, ma nella tradizione di tutto il mondo, si potrebbe dire, la luna ha sempre fatto pensare a qualcosa di placato, tenero, romantico, placido, o anche profondo, che porta alla riflessione, insomma il sé stessi, perché in realtà poi è con sé stessi che ci si sente placati, placidi, tranquilli, eccetera. In questo senso, allora, la luna, simbolo di noi stessi, viene ad indicare come un modo in cui abitare il nostro essere, la nostra soggettività, insomma, come quando uno, dopo una giornata, finalmente si trova tranquillo, da solo, senza tanti pensieri, e ritorna in sé stesso, alla propria soggettività, e vive quella sensazione di pace. Questo è come una specie di abitare, ognuno di noi abita dentro se stesso e trova anche ristoro nell’abitare in sé stesso. Possiamo pensare anche all’espressione di Gesù “Lì dove sarà il tuo tesoro sarà il tuo cuore”. Il mio cuore, ovviamente, è anzitutto in me stesso, al di là dei pericoli di narcisismo, eccetera. Anzi, non è un narcisismo, nella misura in cui questo me stesso viene vissuto come cammino, come strada che porta verso gli altri, piuttosto che come punto di arrivo. Naturalmente non come tendenza automatica, “se guardi te stesso automaticamente amerai gli altri”, ma come parte del cammino da coltivare. Ora, credo che questo, se coltivato con completezza, come strada, con senso critico, può avere molti frutti positivi nella spiritualità di ognuno. Alcuni già li ho lasciati intravedere in ciò che ho detto.
Un altro frutto può essere un apprezzamento della propria dignità, cioè la presa di coscienza del proprio essere come persona, come io, che cresce, che ha una interiorità, che cammina, porta a poter rivendicare la propria dignità, contro, ad esempio, la corruzione, contro il ricatto. Come dire: la persona che ha una forte coscienza di sé stessa, della propria spiritualità, ha sempre un altro bene a cui fare riferimento e quindi, sempre all’interno di un cammino impegnato, ha gli strumenti per risultare meno ricattabile, meno corruttibile, meno esposta alla corruzione rispetto a chi, invece, è disposto a vendersi l’anima, perché magari non crede più in niente o è sfiduciato, oppure proprio è stato corrotto dal denaro e quindi vende la propria fiducia nella verità, per consegnarsi alla menzogna, all’inganno, per vendere la propria coscienza, praticamente, la propria anima.
Un altro aspetto positivo può essere quello della pietà. Cioè, l’attenzione a me stesso, sempre in una via di coltivazione, di crescita, di autocritica, eccetera, può portare a rendersi meglio conto di ciò che prova l’altro quando soffre e quindi comprendere meglio, essere più in sintonia, più con empatia, provare i suoi sentimenti, sapersi mettere nei suoi panni, sempre dico non come processo automatico, non viene ciò spontaneamente, ma come cosa da coltivare attraverso l’attenzione anche alla propria soggettività.
Un altro aspetto è quello di abituarsi ad andare al particolare. Cioè dire, imparerò che tante cose si fondano sul mio modo di pensare, sulla mia opinione, non sono idee universali, che come tali io possa pensare di imporre agli altri. Quindi si tratta di una crescita che poi può essere anche condivisa, può essere attenzione alle altre soggettività, ma in ogni caso attenzione al particolare e ai particolari.
Ultimamente, tutto questo si può chiamare “camminare”. Cioè, perché fare questo, qual è l’importanza dell’attenzione alla soggettività? L’importanza è perché corrisponde a un crescere, a un camminare, perché questo mi fa camminare, e fa camminare non solo me, ma anche, vedo, gli altri soggetti, può far camminare il mondo intero.
Tutto questo però non si costruisce in cinque minuti, perché è come una lingua. Una lingua, che è fatta di tante parole, per poter essere compresa richiede che ogni singola parola venga imparata, ogni singola frase, e che vengano fatte anche tante correzioni a cattive abitudini, o diverse abitudini, prese dalla propria lingua. Però è una lingua che merita di essere imparata, perché è una sensazione, un’esperienza interessante, quando poi uno si accorge di poter parlare un altro linguaggio, poter pensare in maniere diverse. È una soddisfazione perché davvero ci si sente più arricchiti, più ingranditi e più disposti a crescere ancora di più, ulteriormente. Si potrebbe chiamare un avere personalità, ma credo che la parola che poi riassume tutto è questa: “camminare”, oppure, detto come il frutto del camminare, “spiritualità”.
Arrivederci a tutti con l’augurio di saper parlare una lingua più diversa, più nuova, più profonda, più capace di essere aderente alla nostra soggettività, e arrivederci alla prossima puntata.
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