Ammirando
quella parte infinita d’universo
che si apre al mio occhio mediocre,
spiego la mano
a coriandoli di luce,
affrescati su un intonaco d’oscurità
nella parete dell’immenso.
Avere in balia
la sua costante pulsione
è conforto
all’acerbo mio senso,
rimosso, a caso,
dal sacco della coscienza.
Sento fame
del fuoco
che dà vita all’amica Stella.
Accosto, mesto, un uomo della mia folla,
partecipe dell’unico giuoco,
che ancor sento, ma orfano del fuoco.
Commento
Anassimandro, un filosofo del VI secolo a.C., riteneva che le stelle fisse non fossero altro che dei fori, attraverso i quali passa la luce del fuoco che è situato dietro la volta celeste. Il poeta Di Martino ci ricorda che ogni concezione del mondo, ogni idea, suscita nel nostro intimo emozioni che influenzano i significati che individuiamo nella nostra esistenza.
La magnificenza dell’universo lo induce a considerare il proprio occhio come un occhio mediocre. Sembra di sentire in questo sentirsi piccolo il Salmo 8: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”.
La mano spiegata può essere compresa dopo aver letto il seguito della poesia, in cui egli considera il pulsare dell’infinito come un’affettuosa bàlia. Quest’ultima parola si presta a un doppio significato. Se intendiamo “avere in bàlia”, abbiamo il concetto di un universo che fa da bàlia al poeta. Questo ci permette di comprendere la mano spiegata come la manina di un bambino, alzata nel tentativo di toccare le stelle. Se invece intendiamo “avere in balìa”, ci troviamo nel concetto di un essere umano che fa da bàlia alla stella e allora la mano spiegata è una mano che vuole accarezzare la stella, cullarla, e ne sente la pulsazione come se la stella fosse una bambina di cui, nel cullarla, si percepisce il pulsare del respiro e del cuore.
Il termine esatto usato dal poeta non è pulsazione, ma pulsione, che significa spinta, impulso: il poeta sente che la stella ha dentro di sé una spinta verso di lui: una percezione simile a quella espressa nella poesia sulla Luna, da cui egli si sentiva guardato.
Il termine “coriandoli” richiama l’effetto di un luccicare intermittente, un pulsare che fa attribuire alle stelle una vitalità che è come un sorriso rivolto verso di noi.
Così come la luna era “dipinta nel buio”, le stelle sono coriandoli “affrescati su un intonaco d’oscurità”. Questo sfondo di buio o d’oscurità si presenta come una nota di lontana e nascosta paura, è la presenza della morte, che fa da sottofondo a qualsiasi momento della nostra vita, fosse anche il più bello. Il poeta non si nasconde questa nota che inquina ogni sorriso umano, ma non per questo la vita si trasforma per lui in tristezza.
Nella sua relazione con le stelle il poeta sente che si pone in atto un processo di maturazione, di crescita: è questa l’idea suscitata dal sentirsi acerbo; questo crescere non è però soltanto un necessario andare avanti: è anche conforto del rimanere, della sosta; in questo senso la parola “rimosso” si può applicare al conforto, piuttosto che all’acerbo mio senso: è il senso di profondo conforto ad essere purtroppo spesso dimenticato, a causa delle distrazioni della folla, a cui il poeta farà riferimento più avanti.
Tutta questa frase contiene due termini freudiani, pulsione e rimosso, come a dire che il contatto con le stelle fa recuperare al poeta il contatto con la profondità di sé stesso e dell’umanità in genere, un universo intimo, nascosto, che vale la pena di riscoprire ed esplorare, pur con la necessaria delicatezza, prudenza, rispetto, perché si rivela fonte di esperienza intima, dolce, profonda, dell’essere umano nostro e della comunità storica umana di cui facciamo parte.
Rimosso può essere riferito anche all’acerbo mio senso e allora acerbo non significa immaturo, ma primitivo, primordiale: le preoccupazioni quotidiane ci portano a rimuovere dalla nostra coscienza certe sensibilità primordiali, le quali vagano, sconsolate, nel profondo del nostro io, finché la contemplazione delle stelle non recupera il loro diritto di cittadinanza e le fa sentire finalmente confortate, dopo il trauma della rimozione. In questo senso il caso, a cui il poeta fa riferimento, è la violenza di questo mondo, che, come una ruspa, non fa distinzione tra cose belle e cose brutte, ma rimuove alla cieca tutto ciò che è sentito come ostacolo alle necessità impellenti del superficiale vivere quotidiano.
La coscienza viene definita come un sacco, che fa pensare a un sacco amniotico, un contenitore in cui si forma e si sviluppa la nostra identità. Allora possiamo intendere con questo sacco la coscienza collettiva, gli altri, che col loro essere contribuiscono a definire la nostra identità, ma anche a nascondere ciò che viene ritenuto di ostacolo alla vita sociale banale. In questo caso la ruspa è proprio il sacco, il sacco sociale, il sacco della coscienza sociale banale in cui ognuno di noi si trova immerso.
A somiglianza della poesia precedente sulla Luna, in cui il poeta era sempre in cerca di scampoli e intento a rubare, qui egli ha fame del fuoco, una fame suscitata dalla pregustazione della bellezza stellare, ma una fame salutare che chiunque farebbe bene a riscoprire in sé stesso.
Nell’ultima parte troviamo quello che era un significato del sacco della coscienza, cioè il sacco dell’unico giuoco sociale, qui adesso chiamato folla. L’uomo accostato dal poeta è il massimo dell’anonimato, l’uomo massa, una rotella del giuoco di ingranaggi che formano quella ruspa che investe e rimuove alla cieca le sensibilità primordiali. Un uomo così gli fa sentire il piacere del giuoco sociale, ma si tratta di un giuoco vuoto, orfano del piacere incommensurabilmente profondo e dolce che l’animo del poeta aveva potuto gustare cullando la stella e da essa facendosi cullare.
In questi ultimi versi c’è un ripetersi di assonanze tra uomo, giuoco (appositamente scritto in questa forma più arcaica) e fuoco: il poeta ha fame del fuoco e pensa di trovare questo fuoco nell’uomo, visto che ha un suono simile e ancor più simile si trova nel giuoco creato dall’uomo; ma è un inganno, alla fine deve concludere che non è così: fuoco, nonostante la somiglianza del suono, non si trova purtroppo in uomo, né in giuoco, ma è tutt’altra cosa, che egli purtroppo ha potuto riscontrare soltanto guardando la Stella.
Salve a tutti.
Questo video si collega al post “Cercarsi”, che è il titolo di una poesia di Pietro Di Martino, in cui egli esprime la sua esperienza di guardare il cielo, le stelle, nella notte, nel buio, e alla fine conclude sentendosi orfano del fuoco che si vede in queste stelle, questo fuoco tremolante che le anima.
Può essere opportuno anzitutto leggere la poesia stessa.
Ammirando
quella parte infinita d’universo
che si apre al mio occhio mediocre,
spiego la mano
a coriandoli di luce,
affrescati su un intonaco d’oscurità
nella parete dell’immenso.
Avere in balia
la sua costante pulsione
è conforto
all’acerbo mio senso,
rimosso, a caso,
dal sacco della coscienza.
Sento fame
del fuoco
che dà vita all’amica Stella.
Accosto, mesto, un uomo della mia folla,
partecipe dell’unico giuoco,
che ancor sento, ma orfano del fuoco.
Questo contemplare il buio con le stelle mi fa ricordare che in diverse occasioni, quando mi sono trovato in piacevoli momenti di solitudine, di contemplazione, o del buio, o del mare, o di bei paesaggi della campagna, ho avuto la percezione che, in quegli ambienti, pensare di ascoltare musica sarebbe stato come una bestemmia, un sacrilegio, perché si percepiva, almeno io percepivo, che quell’ambiente, quel cielo, quel mare, ti sta parlando così intensamente che non puoi rovinarlo, inquinarlo, con una musichetta, o anche se fosse musica classica.
Dunque, questa è un’esperienza non solo mia, ma dell’intera umanità di sempre, espressa da chiunque, e credo che, tuttavia, c’è una specie di anche intimo conflitto in questa esperienza, perché guardo il mare, guardo le stelle, guardo la campagna, gli alberi, eccetera, mi affascinano, mi toccano, mi dicono qualcosa di intimo nel loro placato silenzio, e però il mio senso critico, la mia ragione, mi dice che, se io in quel momento stessi male, avessi una sofferenza o morissi, quel paesaggio, quelle stelle, quel mare, se ne fregherebbero altamente. Io, si può dire, non sono nessuno per loro. Ecco allora questo conflitto: il paesaggio mi tocca profondamente, ma non posso evitare anche di non accettarlo, perché lui non mi guarda, lui non mi considera. Questo credo che sia una traccia del nostro sentirci orfani del fuoco, perché, nella storia della cultura del mondo, ci siamo lasciati affascinare, anche trasformando in religione i nostri sentimenti, ma poi abbiamo ucciso Dio e l’abbiamo ucciso per questo, perché, come per i paesaggi, abbiamo visto che lui ci abbandona nella sofferenza, ci sentiamo trascurati, se ne frega, sia Dio sia il mondo, se ne fregano del nostro essere, della nostra sofferenza. Quindi abbiamo ucciso Dio, abbiamo ucciso le stelle. Ecco il conflitto: dov’è il fuoco, che tuttavia continua a toccare il nostro animo guardando le stelle?
Ora, possiamo osservare che le stelle ci possono affascinare anche perché lentamente, come se camminassero, sia con quel tremolare, sia col vedere che dopo qualche ora sono in una posizione un po’ diversa, insomma, con il loro toccarci nell’intimo, possiamo interpretare che è come se ci invitassero a perdonare il fatto che, se morissimo in quel momento, loro non potrebbero fare niente, se ne disinteresserebbero. Ma come si può perdonare, che cosa può essere il senso di questo perdonare? Ho dedicato un post apposito proprio al perdonare e la conclusione era che perdonare viene a significare essenzialmente camminare. Come la stella cammina e tocca il mio animo, lo tocca perché in realtà invita anche me a camminare, e se io accetto quell’invito a camminare, allora significa che sto perdonando il fatto che in quell’ambiente in cui sono non c’è nessuno che si interessa di me, potrei morire, nessuno mi aiuterebbe.
Ora, questo significa che, in quel momento, io accetto che la stella mi inviti a sentirmi soggetto, perché - qui mi collego al video precedente - nel confronto tra soggettività e oggettività, l’oggettività è quella che mi dice “Tu puoi morire, qui nessuno se ne fregherebbe”, la soggettività, invece, è il sentirmi toccato dal fascino del paesaggio e della stella. In quel senso, allora, la soggettività è come un invito pressante a perdonare l’oggettività e la posso perdonare perché, in questo rapporto, perseguo, porto avanti, un camminare, un camminare che è fatto di ascolto della soggettività, che parla all’oggettività.
Questo può rendere tutto diverso. Non si tratta quindi di trascurare, ignorare il male che si trova nell’universo che pur ci affascina, ma trasformarlo in dialogo tra la nostra soggettività e l’oggettività. Trasformarlo in dialogo significa già esercitare un perdono, perché dialogo significa cammino.
A questo punto possiamo comprendere in che senso si può dire che Gesù è morto camminando: perché dalla croce ha detto “Perdonali” e quel “Perdonali” significa “Io voglio camminare nella comprensione di loro, perché loro mi stanno uccidendo e qui non mi sta aiutando nessuno, neanche Dio (“Dio mio perchè mi hai abbandonato?), e però perdonali”. Il “Perdonali” non può venire da un ragionamento oggettivo, ma viene dalla soggettività, dal cuore toccato che, in dialogo con l’oggettività, dice “Sì, qui tutto è perduto, ma io preferisco il dialogo con la soggettività e allora dico “Perdonali” ”. Allora si può dire che, se riesce a partire, o quando riesce a partire, perché non sempre è detto che debba riuscire o possa riuscire, quando riesce a partire questo perdono, non siamo più orfani del fuoco. Abbiamo ucciso Dio, perché Dio non risponde al problema del male, ma, anche dopo averlo ucciso, possiamo perdonarlo, o, eventualmente, soprattutto per i credenti, chiedere di nuovo perdono a lui. Quando si vive questo, allora, si sta lavorando per creare pace nel rapporto tra soggettività e oggettività, la dialettica tra soggettività e oggettività, che diventa un reciproco educarsi. Cioè, tra soggettività e oggettività non c’è una sintesi stabile che possa essere raggiunta, ma sarà una continua dialettica. Il perdono è così, non c’è mai un punto di arrivo. Il perdono è un camminare, un continuo reinterpretare, perché il passato, l’offesa, non si dimentica, però si lavora in continuazione, perché ci possa essere un migliorare della vita, delle relazioni. Tutto questo è possibile ed è capace di attirare il nostro io, il nostro soggetto, la nostra soggettività, e allora ci può far diventare fuoco.
Auguri a tutti di essere fuoco che perdona e che quindi cammina e fa camminare, e arrivederci alle prossime puntate.
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